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Da Trump a Le Pen, da Farage a Erdogan, e poi sempre più giù fino a Grillo e Salvini, tutti i populisti del mondo sono uniti nel condannare il libero commercio fra gli Stati, perché questo distrugge i “nostri” posti di lavoro, impoverisce i “nostri” lavoratori e le “nostre” aziende, danneggia la “nostra” economia. Sempre a vantaggio degli “altri”, cioè quelli che sono al di fuori di un certo confine. Non importa se il confine è fisico, come una frontiera, o immaginario, come la Padania.

Queste tesi sono perlomeno discutibili – se non altro perché, se tutti dicono che “noi” siamo le vittime, ci sarà almeno qualcuno in giro che ci guadagna. Ma, c’è un fattore – spesso trascurato nei commenti e nei dibattiti – che le rende ancora più pericolose sia per “noi” che per gli “altri”. La storia dimostra che gli accordi di scambio commerciale non sono mai solo una questione economica. Sono sempre stati prima di tutto uno strumento diplomatico: un modo per consolidare vecchie alleanze e forgiarne delle nuove. Oggi possono essere anche un importante strumento per evitare un’altra guerra mondiale.

Fino al XIX secolo, il commercio internazionale giocava un ruolo marginale nell’economia mondiale. Gli Stati imperiali si procuravano materie prime e manufatti principalmente impoverendo le colonie sotto il proprio dominio. I pochi beni la cui produzione era altamente localizzata, come le spezie, erano importanti soprattutto per l’economia del territorio che le esportava mentre giocavano un ruolo marginale nell’intero bilancio commerciale delle nazioni importatrici.

Inoltre, i vettori energetici che hanno guidato l’economia di ciascuna comunità fino alla fine del XIX Secolo -la forza umana e animale, la legna, il vento, l’acqua corrente ed infine il carbone – sono distribuiti sul pianeta in modo abbastanza uniforme. Dall’inizio della storia dell’umanità alla prima guerra mondiale, infatti, pochi Stati hanno scatenato guerre per rifornirsi di energia.

A partire dalla prima globalizzazione, quella del colonialismo e dei nuovi mezzi di trasporto a cavallo fra 1800 e 1900, il commercio internazionale ha assunto una importanza sempre più determinante per la ricchezza di ogni nazione. Oltre ai benefici economici, è opinione comune che gli accordi commerciali debbano necessariamente portare a rapporti sempre più pacifici fra le nazioni che ne beneficiano. Infatti, osserva lo storico Robert Tombs, tutti i movimenti contro lo schiavismo, i sindacati, le associazioni religiose e i movimenti per l’emancipazione di minoranze e per la pace si schierarono in favore del libero scambio sulla base dell’idea che il libero commercio si sarebbe portato dietro la libertà politica, l’armonia internazionale e infine la dissoluzione degli imperi stessi.

Ma la marcia della globalizzazione non riuscì a fermare lo scoppio della Prima Guerra mondiale. La spinta del nazionalismo e la religione del militarismo sopraffecero le forze commerciali e finanziarie. E non è un caso che il conflitto si innescò proprio fra le nazioni che erano meno economicamente integrate.

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