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La ferocia del dibattito che da mesi infiamma le diverse parti politiche sul tema della concessione della cittadinanza crea un’indebita confusione che forse è bene chiarire per comprendere a fondo quali siano gli effetti e le conseguenze dell’approvazione della riforma, che avverrà molto probabilmente solo attraverso la fiducia. Se analizziamo la legislazione attualmente vigente, possiamo dire che i bambini e le bambine che nascono o sono cresciuti in Italia possono comunque diventare cittadini italiani, solo con una procedura più lunga e complessa; dunque i difensori della “razza pura” devono fare i conti con norme che neppure adesso assecondano questa loro strana idea del mondo.

Anche in assenza della legge sullo ius soli, i bambini italiani frequentano e continueranno a frequentare scuole con bambini che provengono da tutte le parti del mondo, sui mezzi pubblici continueremo a viaggiare con gli stranieri, i servizi sanitari pubblici resteranno aperti a chiunque abbia necessità e via dicendo. Basta guardarsi intorno per avere la certezza che la composizione della società è cambiata.

La cittadinanza, dunque, non è la strada per essere riconosciuti quale soggetti di diritto, perché il solo fatto di essere venuti al mondo conferisce la qualità e la dignità di essere umano, i cui bisogni fondamentali sono assicurati dallo Stato italiano a prescindere dalla provenienza. Di questo principio di civiltà e progresso ciascuno di noi deve essere fiero. Essere cittadino di una nazione significa siglare con quel popolo in cui si è accolti un vincolo di appartenenza al sistema di valori, regole, lingua, cultura che sono alla base del patto sociale su cui si fonda quella comunità e, proprio per questo, il dibattito sulla riforma delle modalità per accedervi non può scadere in uno scontro tra opposte tifoserie.

La nuova normativa indica due principi e detta precise condizioni. I primi due sono quelli dello “ius soli temperato” e dello “ius culturae” che concedono, rispettivamente, la cittadinanza ai figli di persone che siano titolari di un permesso di soggiorno Ue di lunga durata o permanente o comunque residenti legalmente in Italia, oppure, il secondo, al minore che sia nato in Italia o sia entrato nel nostro Paese entro il dodicesimo anno di età, che abbia frequentato regolarmente, per almeno cinque anni, uno o più cicli di studio o seguito percorsi di istruzione e formazione professionale triennali o quadriennali per conseguire una qualifica professionale. Sono esclusi da questa modalità tutti i bambini che, anche per colpe non loro, siano figli di stranieri irregolari e non titolari dei requisiti di legge richiesti.

Certo, avere la cittadinanza italiana non genera automaticamente dei soggetti modello – del resto ciò vale anche per i nostri concittadini – ma certamente è una modalità che permette di costruire un tessuto sociale coeso e una coscienza civica. Ricucire questo strappo odioso tra chi dimostra di saper vivere dentro un sistema di regole e noi stessi mi pare sia necessario e quanto mai utile al nostro Paese. Tutto ciò naturalmente deve essere accompagnato da politiche di integrazione che permettano una piena e totale espansione delle capacità di ciascun esser umano. Dare più diritti non significa toglierne a chi ne ha già, ma rendere la società in cui viviamo un posto migliore per tutti. L’evoluzione della concezione dei diritti umani deve prescindere sempre di più da una valutazione sul chi sono per spostarsi sempre di più sul cosa faccio, come mi comporto, come percepisco le regole e le metto in pratica.

In conclusione la legge sullo ius soli temperato ai bambini nati nel nostro Paese dovrebbe essere patrimonio di tutte le forze politiche perché chi ha paura di un bambino ha paura dell’umanità intera. I nostri figli hanno già riconosciuto piena cittadinanza ai loro compagni di scuola, di gioco, di avventure e di sorrisi, ora tocca farlo allo Stato e alle istituzioni.

 

 

 

minori, cittadinanza, ius soli

Cosa penso dello Ius soli

Di Andrea Catizone

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