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Scrivere, come ha appena fatto Il Giornale della famiglia Berlusconi in un titolo di prima pagina, che il Consiglio Superiore della Magistratura è “insorto” contro i metodi d’indagine del sostituto procuratore Woodcock, tornato alla ribalta delle cronache giudiziarie, se mai ne era uscito davvero, per quello che potremmo a questo punto definire il pasticciaccio Consip, mi sembra un’esagerazione. Così definì peraltro la notizia falsa della sua morte il 2 giugno 1887 lo scrittore e umorista americano Mark Twain, poi imitato anche da qualche italiano incorso in analoga situazione.

Al Csm è soltanto accaduto che il consigliere Pierantonio Zanettin, eletto dalle Camere al consesso del Palazzo dei Marescialli su designazione del partito berlusconiano, abbia chiesto l’apertura di una pratica, cioè di un’indagine, su quello che contemporaneamente da Napoli Woodcock, come aveva già fatto due giorni prima Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano, definiva “un grave e spiacevole errore” del capitano dei Carabinieri Gianpaolo Scafarto. Che egli aveva incaricato di tradurre in un brogliaccio informativo le intercettazioni delle indagini targate Consip.

Mi riferisco naturalmente all’”errore”, scoperto dalla Procura di Roma come manipolazione, di attribuire all’imprenditore napoletano Alfredo Romeo, ora in carcere, la notizia di un incontro col padre di Matteo Renzi, Tiziano, accusato anche o soprattutto per questo di traffico di influenze illecite per l’aggiudicazione degli appalti della centrale degli acquisti della pubblica amministrazione.

Oltre alla presa d’atto di questa richiesta di apertura di una pratica, il Consiglio Superiore della Magistratura non è andato. E Dio solo sa se e quando vi andrà, visto anche che non si è avuta notizia di altri consiglieri intervenuti a sostegno della proposta di Zanettin.

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Non risulta nemmeno che il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nel tempo lasciatogli libero dalla campagna congressuale alla quale partecipa con comprensibile impegno per contendere a Matteo Renzi, sempre lui, la segreteria del Partito Democratico, sia riuscito a farsi un’idea precisa del contrasto che pure ha definito “inquietante”  fra le Procure di Napoli e di Roma nella gestione delle indagini sulla Consip.

A Napoli, come ormai si sa, ma conviene ripetere, continuano ad avvalersi, come polizia giudiziaria, dello stesso nucleo ecologico dei Carabinieri estromesso dalla Procura di Roma al sorgere dei primi sospetti, avvalorati poi dalla manipolazione delle intercettazioni formalmente addebitata al sunnominato capitano Scafarto. Di cui nel frattempo è emerso da un altro processo un inquietante errore – per ripetere un aggettivo caro al guardasigilli – nel trattamento di una intercettazione costata l’incriminazione del sindaco di Ischia nelle indagini sulla metanizzazione dell’isola e sulla cooperativa La Concordia. Che non è da confondere naturalmente con l’omologa e ormai rottamata nave da crociera, comandata dall’indimenticato Schettino e finita contro gli scogli dell’isola del Giglio la sera del 13 gennaio 2012.

Tornando al guardasigilli Orlando, le ultime notizie che si hanno di lui, a proposito del pasticciaccio giudiziario Consip, gli attribuiscono la volontà di “capire la dinamica dei fatti” prima di decidere se ricorrere o no ad una ispezione ministeriale. Che rientra fra le sue prerogative, pur al netto di tutte le polemiche che potrebbe provocare. E che una volta -va detto anche questo- costarono il posto, con l’esordio dell’istituto parlamentare della sfiducia individuale, alla buonanima del ministro Filippo Mancuso, spintosi -poverino- a mandare gli ispettori nel 1995 in quei sacrari che erano diventati, per le indagini Mani pulite,  il Tribunale di Milano e la relativa Procura della Repubblica.

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D’altronde, neppure il protagonista, diciamo così, della scoperta della manipolazione delle intercettazioni Consip gestite a Napoli e finite sui giornali, il capo della Procura di Roma Giuseppe Pignatone, si mostra tanto interessato alle questioni sollevate dal suo scrupoloso esercizio dell’azione giudiziaria. Gli è appena capitato, per esempio, di partecipare ad una discussione promossa dal Consiglio Nazionale Forense sull’attualissimo tema del rapporto fra inchieste della magistratura, diritto di cronaca e tutela dei diritti personali per limitarsi ad esprimere, anzi a ribadire un troppo vecchio e a questo punto persino banale auspicio -mi scusi il dottor Pignatone- che cessino “assi privilegiati tra singoli magistrati, o singoli uffici, e singole testate”, o singoli giornalisti.

Questo auspicio, naturalmente lodevolissimo, è tuttavia disincentivato da un’altra considerazione del capo della Procura di Roma: che sia “impossibile risalire ai responsabili delle cosiddette fughe di notizie”, potendosi calcolare che di ogni atto o iniziativa segreta siano a conoscenza, nel circuito giudiziario, almeno “una decina di persone”. Che a me, francamente, non sembrano poi molte per venirne a capo in un’indagine su una violazione di segreto d’ufficio.

Quella “impossibilità” enunciata da Pignatone mi sa tanto di rassegnazione, per quanto inconsapevole, ad una realtà o pericolo che lo stesso capo della Procura di Roma ha riconosciuto: che a “a fare la storia, o la cronaca” giudiziaria sia purtroppo non la maggioranza dei magistrati scrupolosi e imparziali, ma la minoranza costituita da quelli né scrupolosi né imparziali, inclini quanto meno al protagonismo , se non a qualcosa di peggio.

Vorrei chiudere con un consiglio, né richiesto e forse neppure gradito, a Matteo Renzi, fresco di un’altra performance televisiva nel salotto di Lilli Gruber, e di un ospite ormai quasi fisso come l’amico Paolo Mieli. Fisso come Marco Travaglio, assente ieri sera ma al quale l’ex presidente del Consiglio e segretario rientrante del Pd ha dato del direttore non del Fatto ma del Falso Quotidiano.

Pur con tutta la comprensione che merita Renzi per l’ossessione che di lui hanno in quel giornale, penso che l’ex presidente del Consiglio debba risparmiarsi questi giochi travaglieschi con le parole, lasciandoli a noi giornalisti, che possiamo dircele e darcele di santa ragione senza incorrere nel sospetto, pernicioso per un uomo politico, di violare la sacralità della stampa, per quanto spesso immeritata, lo ammetto.

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