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L’allarme, pur smentito poi dallo stesso segretario dimissionario e dal vice segretario Lorenzo Guerini, è stato lanciato in prima pagina dalla Stampa: le primarie del Pd sono in forse per gli sviluppi delle indagini sugli appalti della Consip, la centrale degli acquisti della pubblica amministrazione. Vi sono notoriamente coinvolti anche il padre di Matteo Renzi, Tiziano, e l’amico Luca Lotti, ministro dello sport, contro il quale i grillini si sono affrettati a promuovere una mozione di sfiducia.

Primarie del Pd “in forse” significano naturalmente congresso in forse: un congresso per la cui convocazione in tempi brevi – “cotto e mangiato”, secondo Pier Luigi Bersani, o “con rito abbreviato”, secondo Michele Emiliano, che vede tutto con le lenti e il linguaggio del magistrato, per quanto in aspettativa – Renzi ha subìto una scissione. O l’ha cercata, come gli rimproverano i fuoriusciti e gli avversari che sono rimasti nel Pd per fargli la guerra, prendendo il testimone dai compagni andati via. Alcuni dei quali, a cominciare dal più famoso e astioso, Massimo D’Alema, hanno prospettato la possibilità di tornare se mai la corsa alla segreteria del Pd fosse vinta dal ministro della Giustizia Andrea Orlando, proveniente – guarda caso – dalla storia del Pci, o della “ditta”, come la chiama Bersani. Par di capire che invece non cambierebbe nulla con una vittoria di Emiliano, considerato d’altronde da Peppino Caldarola, ex direttore dell’Unità, “non diverso da Renzi” per temperamento e improvvisazione.

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Ma a mettere “in forse” primarie e congresso del Pd, il cui percorso peraltro è intralciato anche da polemiche, inchieste e ricorsi sul tesseramento in territori non certamente nuovi a irregolarità,, come Napoli e la Sicilia, non sembrano essere gli ex o post-comunisti rimasti nel partito per proseguire la lotta dei compagni usciti forse troppo in fretta, secondo loro, ma gli ex o post-democristiani che sino a ieri sembravano più congeniali alla storia di Matteo Renzi.

Secondo la Stampa, sarebbero il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini “e i suoi” ad essere “pronti” a chiedere di bloccare l’orologio delle primarie. Sarebbero loro a temere un congresso ormai intossicato dalla vicenda giudiziaria del padre di Renzi, atteso proprio oggi negli uffici della Procura di Roma, e dalle strumentalizzazioni -a dir poco- cui si presta. Anzi, si è già prestata e potrebbe sempre più prestarsi nelle prossime ore e nei prossimi giorni.

Franceschini e i “suoi”, d’altronde, avevano già vacillato nelle scorse settimane nel sostegno a Renzi, tentati dal solito ruolo dei “pontieri”, di tradizione democristiana, con le opposizioni di turno, quando queste ultime sembravano più disposte, o meno indisponibili, come preferite, ad una mediazione. Ora potrebbe risultare persino comprensibile una tentazione dei franceschiniani di smarcarsi in qualche modo da quello che già è diventato sui giornali “il romanzo familiare” di Renzi o addirittura, “la festa del papà”, secondo il sarcastico titolo, al solito, del Manifesto: un anticipo della festa vera, che si celebrerà il 19 marzo, giorno di San Giuseppe.

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In verità, Franceschini essendo nato 17 anni prima di Matteo Renzi ha fatto in tempo a votare, e più volte, per le liste e il simbolo della Democrazia Cristiana. Matteo Renzi no.

L’ultima volta che lo scudo crociato partecipò come tale alle elezioni politiche, quelle del 1992, Matteo Renzi dovette starsene a casa o andare al mare avendo meno di 18 anni, compiuti solo l’11 gennaio del 1993.

Quella personale dell’ex presidente della provincia di Firenze, ex sindaco della stessa Firenze, ex presidente del Consiglio e ora anche ex segretario del Pd in corsa per la rielezione, non si può definirla una storia democristiana vera e propria. Lo è solo per provenienza familiare, per la militanza scudocrociata del padre, passata -a quanto pare- per varie correnti di quel partito, che ne aveva parecchie e perciò consentiva una certa mobilità. L’ultima collocazione correntizia di papà Renzi è stata rivelata proprio dal figlio come demitiana: cosa peraltro che non attenuò ma accentuò lo stupore e l’indignazione avvertita da Ciriaco De Mita nello scontro televisivo avuto con l’allora segretario del Pd nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

È proprio la vicenda giudiziaria Consip quella che rischia ora di inceppare la macchina congressuale piddina, a consegnare  paradossalmente Matteo Renzi per via del “romanzo familiare” di cui si diceva alla storia della Dc. Dove si trova traccia di un altro “romanzo familiare”: quello dei Gava, papà Silvio e figlio Antonio, trapiantata in Campania dal Veneto e risultata di grande potenza nel partito.

Allora però i problemi non furono procurati dal padre al figlio ma dal figlio al padre, con tortuose vicende giudiziarie che costarono fra il 1994 e il 1995 sei mesi di arresti, fra carcere e domicilio, all’ormai ex ministro dell’Interno e capogruppo parlamentare della Dc, accusato di collusioni con la camorra. Poi “don Antonio” sarebbe stato assolto, e prescritto in un altro procedimento.

Cosa succede nel Pd fra Matteo Renzi e Dario Franceschini dopo l'inchiesta Consip

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