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Al novantesimo, ma il testo che doveva abolire i toponimi italiani in Alto Adige è saltato. Forse per sempre. “Tutto rinviato”, secondo la formula, naturalmente edulcorata, proveniente dalla Commissione dei Sei, che era chiamata a Roma al varo definitivo, e dato per scontato, di una norma sempre più contestata in modo trasversale. Ma in realtà la rottura è stata politica e tutte le Istituzioni della Repubblica chiamate in causa, a cominciare dal Quirinale, non sono rimaste insensibili al grido di dolore lanciato dai centoquindici docenti italiani e stranieri che solitariamente diedero il primo allarme contro l’incredibile affronto alla lingua e alla storia d’Italia. E’ così arrivato il colpo di scena dei 102 senatori di maggioranza e opposizione, che hanno condiviso l’appello accademico per fermare subito i lavori dei Sei, sollecitando invece la pronuncia della Corte Costituzionale sul tema.

Sono poi partiti due siluri imparabili: un tale provvedimento sarà incostituzionale, hanno ammonito ben due ex presidenti della Consulta, Antonio Baldassarre e Giovanni Maria Flick. Baldassarre fu l’estensore della sentenza-pilota sul bilinguismo inderogabile dei toponimi, la numero 21 del 1987, che impedì il primo tentativo di aggirare la Costituzione e cancellare la secolare memoria d’Italia in Alto Adige. Secondo la storica sentenza la Provincia di Bolzano doveva introdurre e far precedere (essendo l’italiano la lingua ufficiale dello Stato) l’espressione “maso avito” a quella di “Erbhof”, il solo termine che la legge altoatesina invece contemplasse a proposito dei masi su cui legiferava: “Maso avito-Erbhof”.

Nel frattempo erano scattate la raccolta di firme dei deputati e la scelta di Forza Italia (Brunetta, Romani e Michaela Biancofiore) di rivolgersi il prima possibile al Quirinale. E il lavoro incisivo di informazione del consigliere regionale Alessandro Urzì presso le autorità nazionali, che avevano sottovalutato la gravità della scelta locale voluta dalla Svp e subìta dai fragili alleati di lingua italiana. Subìta da quel Pd altoatesino che non ha trovato sponda nel Pd nazionale, molto attento al rischio di trascinare il Quirinale in un’avventura indifendibile.

Perfino il dibattito infuocato con cui lunedì scorso a Bolzano rappresentanti della comunità italiana di ogni idea politica hanno contestato il presidente della Commissione dei Sei, Francesco Palermo, ha lasciato il segno. E così il giocattolo s’è rotto –pare- sulla questione posta da Roberto Bizzo (Pd), presidente del Consiglio provinciale di Bolzano (e da sempre perplesso): si metta in premessa il riferimento alla vigente norma dello Stato sulla toponomastica. L’unica, oltretutto, che oggi regolamenti la materia. Invece la menzione era “nascosta” nell’allegato per poter dire che c’era, ma senza darle la forza giuridica del “nei limiti e ai sensi di”. Quel riferimento avrebbe reso più difficile sradicare i nomi italiani. Alla Provincia di Bolzano spetta, oltretutto, solo la facoltà, non ancora esercitata, di “ufficializzare” le dizioni tedesche e ladine. Ma la richiesta del riferimento alla legge dello Stato dove andava messo, avrebbe irrigidito Karl Zeller, commissario/senatore della Svp che non accettava migliorie, pur minime, al compromesso raggiunto col Pd locale in barba alla Costituzione e al principio fondante dei toponimi bilingui scolpito nell’Accordo De GasperiGruber del 1946.

Che la rottura sia avvenuta su questo o altre questioni poco importa. E’ lo stesso e sconfitto Palermo, che non ha voluto farsi carico della valanga di critiche piovute d’ogni dove, a dichiarare ora parole di delusione che suonano come una resa. Ma se questo rinvio sarà la fine di ciò che mai sarebbe dovuto iniziare (l’idea che in Italia si possa, anzi, si debba far fuori il 65 per cento dei secolari nomi italiani in Alto Adige), saranno in molti a poter dire: c’è un’Istituzione, a Roma.

(Articolo pubblicato sul quotidiano Il Messaggero e tratto dal sito  www.federicoguiglia.com)

Chi e come ha fermato la rottamazione dei nomi italiani in Alto Adige

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