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Passi per il governatore campano Vincenzo De Luca, Enzo per gli amici, costretto da una sollevazione mediatica quasi generale a scusarsi pubblicamente con la collega di partito Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare antimafia. Alla quale ha augurato di essere “uccisa” in un fuori onda sgradevole sia per lui, che vi è caduto, sia per chi lo ha utilizzato facendolo parlare, diciamo pure sfogare contro la Bindi, a intervista già finita, e a microfoni che lui riteneva spenti, sulla scia di pesantissimi commenti, sempre contro la Bindi, fatti in altra occasione da Vittorio Sgarbi. Che notoriamente non è un chierichetto quando decide di prendersela con qualcuno, o qualcuna.
Pur provocato l’anno scorso dalla Bindi, che gli fece rischiare la sconfitta elettorale nella sua regione con quell’elenco di impresentabili da cui, peraltro, era destinato ad uscire con l’assoluzione dopo una condanna per abuso d’ufficio rimediata in primo grado, De Luca non ha avuto scampo nella deplorazione degli scandalizzati: gli stessi che, magari, in romanesco puro ti mandano a “morì ammazzato” ad un incrocio solo perché hai preteso di usare la precedenza che ti spettava. O gli stessi, come non ha torto ha rilevato, quasi solitaria, Tiziana Maiolo che lanciano urla maledicenti negli stadi contro arbitri e giocatori.
Tutto sommato, De Luca ha fatto bene a chiuderla lì con le scuse perché è inutile resistere più di tanto al conformismo di quella che viene generalmente chiamata opportunità politica, ma che in realtà è solo opportunismo. Ma mi sembra a questo punto una vera enormità lo scandalo che si è tentato di sollevare contro il presidente del Consiglio Matteo Renzi, affrettatosi a dare torto al suo amico “Enzo” per la scivolata sulla Bindi inducendolo alle scuse, ma spintosi poi a definire “accozzaglia” in un comizio l’insieme degli illustrissimi signor No schieratisi contro di lui nel referendum del 4 dicembre sulla riforma costituzionale: leader, leaderini, ex leader, aspiranti leader, attori e comparse che stanno cavalcando la prova referendaria come l’occasione imperdibile per mandarlo a casa, tagliargli le gambe e altre carinerie del genere.
Il dizionario della lingua italiana di cui dispongo dice che accozzaglia significa “raggruppamento indiscriminato e disparato, e per lo più sgradevole, di persone o cose”. Che cosa non piace o può non risultare piacevole del termine usato da Renzi alla luce di questa definizione? Forse quel “per lo più sgradevole”. Ma chi può obbligarmi a gradire ciò che non gradisco? E’ forse un reato negare il gradimento nei riguardi di un nominato quando si è legittimamente chiamati a pronunciarsi su di lui? Equivale a volerlo ucciso, sia pure sul piano semplicemente metaforico? Francamente, non capisco. Non condivido e, se permettete, non gradisco.
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Dell’accozzaglia lamentata da Renzi in questa che sta diventando per fortuna la fase finale della campagna referendaria, insieme con i D’Alema, i Bersani, i Grillo, gli Ingroia, i Quagliariello, i Berlusconi, tanto per citare solo alcuni dei personaggi che solo ad immaginarli insieme attorno a un tavolo per accordarsi su un nuovo governo viene la pelle d’oca, c’è naturalmente anche il segretario leghista Matteo Salvini. Del quale vorrei riferire “i cinque secondi”, cinque, da lui stesso descritti a Mosca, dove ha fatto il solito pellegrinaggio politico, in attesa o nella speranza, forse, di farne poi un altro simile anche alla Casa Bianca, quando s’insedierà il nuovo presidente degli Stati Uniti Donald Trump, già prestatosi con lui in campagna elettorale per una foto prima negata e poi per forza ammessa perché non si trattava onestamente di un fotomontaggio.
Per cinque soli secondi, ripeto cinque, gli esigenti poliziotti del Cremlino hanno permesso all’ospite italiano di srotolare sulla storica Piazza Rossa, a pochi passi dall’altrettanto storico mausoleo di Lenin, il manifesto italiano del No referendario alla riforma costituzionale e dell’ordine di sfratto a Renzi da Palazzo Chigi prima di Natale. Cinque secondi, non più di cinque, ripeto, per “rispettare le regole”, ha spiegato Salvini smentendo i soliti “cazzari giornalisti” – parole sue – che avevano parlato di un intervento un po’ invasivo, diciamo così, dei poliziotti russi. Ai quali, ma ancora più al governo da cui dipendono, diversamente da come accade in Italia e in tanti altri paesi del nostro sfortunatissimo occidente, il segretario della Lega ha riconosciuto l’altissimo merito di tenere in ordine la santa terra russa. “A Mosca -ha garantito Salvini con l’autorevolezza di un testimone di esportazione- non vi sono mendicanti. I lavavetri sono una categoria non pervenuta. Non c’è una cartaccia per terra”.
Se non ricordo male, le stesse cose proprio lui, Salvini, e il suo amico forzista e parlamentare Antonio Razzi, quello immortalato dalle imitazioni di Maurizio Crozza, hanno detto della Corea del Nord, quando vi sono stati ospitati, trovandola come “la Svizzera dell’Asia”. E pazienza per il prezzo che costano in termini di democrazia, per non dire altro, quegli spettacoli di pulizia e di ordine, di tutto a posto e tutti a casa, senza tante storie.
Pensate un po’ che per difendere Salvini, proprio lui, Salvini Matteo, segretario della Lega, reduce da un comizio a Firenze in cui, assistito dal govenatore forzista della Liguria Giovanni Toti, aveva dato a Berlusconi del solito “Re Tentenna”, ironizzando sul presidente della Repubblica alla quale lo stesso Berlusconi, non un sosia, aveva osato garantire “senso dello Stato e di responsabilità” in caso di crisi per una vittoria del No al referendum, l’ex Cavaliere di Arcore ha sfiduciato Stefano Parisi. Che a Padova, nello stesso giorno, aveva avuto la malaugurata idea di contestare gli attacchi leghisti alla linea dichiaratamente moderata e “non di destra” appena esposta dall’ex presidente del Consiglio in una lunga, studiatissima intervista al Corriere della Sera.
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Ora il povero Parisi, messo praticamente alla porta, privato di quel pur generico e ambiguo mandato di federatore, o non so cos’altro, affidatogli in estate ad Arcore da Berlusconi, familiari, consiglieri ed altri, ha deciso di mettere su un proprio partito, chiamato Energie per l’Italia, che temo destinato, al di là delle sue intenzioni, a dividere ulteriormente e a ridurre le già residue speranze di una riedizione di quello che fu il centrodestra improvvisato più di 22 anni fa dall’allora presidente della Fininvest.
A Parisi gli amici del Foglio hanno dato un consiglio per salvarsi dal marasma politico dell’ex centrodestra: quello di staccarsi dal fronte referendario del No ed unirsi al fronte del Sì, dove potrebbe trovarsi sicuramente in migliore compagnia con Marcello Pera, Giuliano Urbani ed altri della prima e fortunata Forza Italia. Non sarebbe un cattivo consiglio, in teoria. Ma purtroppo anche Parisi è prigioniero del percorso iniziale della sua avventura ed è condannato, nel percorso finale della campagna referendaria del No, a restare paradossalmente con Salvini.
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