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Tranquilli, un sostituto procuratore di passaggio ha assicurato, senza vergognarsene, di non avere visto Matteo Renzi nei pressi dell’albero caduto, nella giornata di maltempo a Roma, su uno scuolabus ferendo tre persone, tra cui una bimba. Il presidente del Consiglio non può essere quindi accusato di avere segato e neppure spinto velleitariamente l’albero con un pugno per contribuire ai guai della Capitale e soprattutto della sindaca grillina. Che cerca di amministrare la città transennando le buche che via via provocano, cadendo, anche gli assessori della sua giunta. Una sindaca che Matteo Renzi ha appena salutato col suo solito frettoloso vigore in un incontro alla Fao, ma con la speranza forse di rovinarle il polso, non bastandogli di ostacolarne la ricerca dei soldi necessari al default del bilancio capitolino.

Ormai il clima politico, e persino umano, della campagna referendaria sulla riforma costituzionale è tale che si può ricorrere a tutto, anche alle più colossali idiozie, per peggiorarlo ai danni dei sostenitori del sì, anche se i sondaggi li liquidano già come perdenti. Evidentemente se ne teme il recupero nei cinquanta giorni che mancano all’appuntamento con le urne del 4 dicembre. A meno di rinvii, visto l’affollamento delle iniziative giudiziarie in questa direzione, nella speranza che la Corte Costituzionale spacchetti in cinque confezioni il quesito unico sul quale la Corte di Cassazione, in base alla legge e ai precedenti, ha deciso che debbano pronunciare il loro sì o no gli elettori. Cinque confezioni che paradossalmente potrebbero anche disinnescare la mina del referendum, consentendo a Renzi –vista la sicumera dei suoi avversari- di non perderle tutte ma di aggiudicarsene almeno qualcuna, come quella dell’abolizione dell’inoffensivo e costoso Cnel e delle province, peraltro già sostituite in molte parti d’Italia con le cosiddette città metropolitane.

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Ad aumentare le ansie del no, pur nascoste sotto i sondaggi ad esso favorevoli, sta contribuendo il “Cavalier Tentenna”, come il Manifesto chiama Silvio Berlusconi, sempre più sospettato di non avere tanta voglia di impegnarsi su quel fronte che pure ha sponsorizzato dall’inizio.

Il rinvio dell’incontro annunciato, al suo rientro dagli Stati Uniti, con il segretario leghista Matteo Salvini e la destrissima Giorgia Meloni, già sospettosi delle reali intenzioni referendarie di Silvio Berlusconi, ha fatto scattare l’allarme dei contrari alla riforma. Ed ha invece rincuorato l’amico ed ex presidente del Senato Marcello Pera, che ha affidato a Libero, il giornale diretto di Vittorio Feltri, una lettera “a Silvio” per esortarlo a non mescolarsi a quanti usano contro Renzi gli stessi argomenti adoperati contro di lui quando era a Palazzo Chigi.

I maligni dicono che però a disamorare Berlusconi sul fronte del no, più degli appelli di Pera e degli altri, fra cui Giuliano Urbani, schieratisi decisamente per il sì, sono i toni esasperati e troppo controproducenti usati in ogni momento della giornata, anche di notte, dal suo capogruppo alla Camera Renato Brunetta. Dei no, quelli dell’ex ministro della Funzione Pubblica, non classificabili di certo fra quelli “costruttivi”, auspicati da Berlusconi, o “intelligenti”, consigliati da Gianni Letta prim’ancora che la campagna referendaria cominciasse. Per non parlare, naturalmente, dei sì di Fedele Confalonieri, l’amico di una vita di Berlusconi, raccolti a più riprese sul Corriere della Sera dal confidente Francesco Verderami. E di cui il solo a non accorgersi sembra che sia stato e sia ancora il vice presidente del Senato ed ex ministro Maurizio Gasparri. Che, come San Tommaso, vorrebbe toccare personalmente le labbra dell’amico presidente di Mediaset mente dicono o sussurrano quella maledetta parolina. E per fortuna –deve avere detto in questi giorni Gasparri- fra i sicuri elettori del no è venuto a mancare Dario Fo. Che, se avesse potuto, avrebbe calcato la matita sulla scheda tanto da rischiare di strapparla.

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Sui funerali di Dario Fo, autorizzati dal cardinale di Milano sul sagrato del Duomo, per quanto laicissimi, si sono naturalmente sprecate le polemiche. Alle quali francamente non mi sento di partecipare perché se il padrone di casa, appunto il cardinale Angelo Scola, non ha avuto nulla da ridire, chi sono io –direbbe il Papa- per giudicare?

Diverso naturalmente è il discorso sul giudizio laico che merita o demerita l’artista per le scelte compiute in vita, fra le quali ho visto con una certa soddisfazione –lo confesso- che qualcuno è tornato a ricordare, e a non perdonare, la partecipazione a quella immonda campagna del 1971, con tanto di manifesto, contro il povero commissario di Polizia Luigi Calabresi, assassinato l’anno dopo e definito da Fo “Cavalcioni” per il ruolo che avrebbe avuto nella caduta mortale dell’anarchico Giuseppe Pinelli dalla finestra del suo ufficio, nella Questura di Milano, durante gli interrogatori per la strage nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, sempre a Milano.

L’inconsolabile Marco Travaglio ha accusato i critici di Fo di non ricordare anche gli altri 756 firmatari di quell’orrendo manifesto. Dei superstiti, quando verrà il turno della morte, se non li avrò nel frattempo preceduti naturalmente, assicuro il direttore del Fatto che non tacerò di sicuro i nomi, a cominciare da Eugenio Scalfari, cui auguro –per carità- vita ancora più lunga. La sorte d’altronde gli ha già procurato, quasi come contrappasso, la condivisione della sua Repubblica con la direzione di Mario Calabresi, figlio del commissario barbaramente ucciso nel 1972 sotto casa, peggio di un cane.

Vi racconto le ultime berlusconate dei berlusconiani sul referendum

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