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Miracolo a Roma questa volta, non a Milano, come nel famoso film del 1951 diretto da Vittorio De Sica e ricavato da un romanzo di Cesare Zavattini.

Ma a Roma dove? In Campidoglio, dove i grillini ne stanno dicendo e facendo di tutti i colori, decisi a dimostrare così bene e così tanto la loro diversità da poter ridurre la Capitale peggio di come l’aveva lasciata Ignazio Marino? Ormai la giunta a 5 Stelle di Virginia Raggi è una diligenza che carica e scarica assessori come in un film del far west. Neppure la sesta stella, quella dello sceriffo Beppe Grillo, riesce più a fermare la giostra.

No. Il miracolo romano è avvenuto dalle parti di via Cristoforo Colombo, nella sede della Repubblica di carta, dove il fondatore Eugenio Scalfari ha mandato da casa il suo solito editoriale festivo che ha politicamente e filosoficamente seppellito un storico collaboratore del giornale e amico come il presidente emerito della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, nonché punta di diamante della campagna referendaria contro la riforma della Costituzione. Egli lo ha dato sconfitto per 2 a 0 nella partita televisiva giocata la sera di venerdì scorso a la 7 col giovane presidente del Consiglio Matteo Renzi. E meno male che il punteggio si è fermato al pur netto 2 a 0, perché gli argomenti usati da Scalfari contro l’illustre giurista avrebbero potuto portare a un punteggio anche peggiore.

Non è la prima volta, in verità, che Eugenio Scalfari si è trovato in dissenso con il suo vecchio amico e collaboratore, avendo polemizzato con lui già quattro anni fa. Quando si consumò una clamorosa rottura fra l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e la Procura di Palermo sulla sorte giudiziaria e materiale delle intercettazioni delle telefonate ricevute o partite dal Quirinale verso l’ex ministro dell’Interno, ex presidente del Senato ed ex vice dello stesso Napolitano alla presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, Nicola Mancino, allora indagato e poi imputato nel processo tuttora incredibilmente in corso sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione delle stragi.

Zagrebelsky si schierò contro Napolitano, arrivando ad accusarlo di avere praticamente abusato delle sue prerogative col ricorso contro la Procura palermitana davanti alla Corte Costituzionale. La quale per ragioni di Stato non avrebbe potuto che dargli ragione, pur senza averla. Scalfari lo bacchettò sostenendo che quelle intercettazioni non solo andavano distrutte, senza passare per l’udienza reclamata dalla Procura e destinata inevitabilmente a farne poi diffondere il contenuto dalle parti processuali interessate, ma non avrebbero dovuto essere neppure registrate. Al solo sentire la voce del Capo dello Stato, chiaramente individuabile dalle prime battute, già dai saluti fra chi chiamava e chi rispondeva, il registratore avrebbe dovuto essere bloccato per le prerogative di riservatezza delle funzioni del presidente della Repubblica, superiori costituzionalmente ad ogni altra pretesa necessità inquirente.

I giudici del Palazzo della Consulta, peraltro situato proprio di fronte al Quirinale, non ebbero dubbi. Aveva ragione Napolitano, e con lui Scalfari, e torno il loro pur ex presidente Zagrebelsky, che non era naturalmente rappresentato in giudizio ma non si era risparmiato di intervenire nel dibattito mediatico, come forse avrebbe dovuto evitare proprio per essere stato al vertice della Corte Costituzionale, non cercando in qualche modo di influire sui giudici come presidente emerito, magari contro la sua stessa volontà.

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Questa volta, tuttavia, lo scontro di Scalfari con Zagrebelsky è stato più clamoroso e pregnante, scendendo dalle alture delle istituzioni alle contingenze della lotta politica, che sono tanta parte, la prevalente, della campagna referendaria sulla riforma costituzionale. Un terreno, questo, sul quale il presidente emerito della Corte ha voluto calarsi illudendosi di poter separare le questioni istituzionali da quelle politiche e diventando egli stesso, volente o nolente, attore politico, antagonista diretto del presidente del Consiglio. Per sostituire il quale, per esempio, in caso di sconfitta referendaria e di sue conseguenti dimissioni, per quanto non reclamate a voce dalla minoranza del suo partito, qualche fantasioso avversario di Renzi potrebbe reclamare l’incarico di presidente del Consiglio per un governo istituzionale cosiddetto di scopo, per predisporre una nuova legge elettorale e portare il Paese alle urne, proprio Zagrebelsky. Sì, lui, la voce considerata da molti la più alta e prestigiosa levatasi in difesa della Costituzione. Tanto alta e prestigiosa che Matteo Renzi  coraggiosamente ha accettato la sfida a misurarvisi.

Il bello è che ad un certo punto, salendo a sua volta dalla pianura della lotta politica alle vette della filosofia e della storia, dove Zagrebelsky nel confronto televisivo con Renzi aveva cercato di attestarsi, convinto di poterlo fare a fette, Scalfari ha scavalcato il professore. E gli ha contestato l’espediente polemico della “oligarchia”, quale sarebbe quella destinata ad essere prodotta dalla riforma costituzionale, alla “democrazia”. Ma chi ha mai detto – gli ha praticamente chiesto Scalfari – che l’oligarchia, intesa come va intesa, cioè come “classe dirigente”, sia negativa? Magari – ha scritto ancora il fondatore di Repubblica–  Renzi diventasse veramente un oligarca, che si contorna di esperti e di saggi, e non solo di collaboratori ubbidienti, di un cerchio o giglio più o meno magico. E da Platone il buon Barpapà è arrivato a Pericle e al momento più alto della democrazia ateniese di stampo oligarchico.

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Ma questa volta sono io a cercare di scendere dalle vette della filosofia e della storia per calarmi negli anfratti della lotta politica e dissentire da Scalfari per l’invito fatto a Renzi di spostarsi a sinistra, pur condividendone la voglia dichiarata di pescare nel referendum voti a destra. Una voglia invece ingiustamente derisa da Pierluigi Bersani e compagni. Che considerando il presidente del Consiglio una specie di infiltrato della destra nella sinistra lo accusano di andare “dove lo porta il cuore”, per ripetere le parole dell’ex segretario del Pd.

Dubito che spostandosi a sinistra Renzi possa pescare voti e vincere, come dice, il referendum a destra, dove la confusione è massima. Lo dubito anche perché la sinistra “moderna” e davvero riformista di cui parla Scalfari, e verso la quale Renzi dovrebbe spostarsi, non mi sembra proprio che sia quella interna del Pd, così vecchia e prevenuta che quanto più Renzi apre ad essa sul terreno della riforma della legge elettorale della Camera, reclamata a parole per accettare la riforma costituzionale, tanto più si attesta sul no referendario.

Neppure Giorgio Napolitano è riuscito e riesce a fare ragionare questa sinistra, pur concedendole rimproveri a Renzi, che li accetta disciplinatamente, per avere sbagliato nei mesi scorsi l’avvio personalistico di questa troppo lunga campagna referendaria. Manca poco che anche di Napolitano si dica che, votando sì alla riforma costituzionale, che lui è appena tornato a difendere in modo assai argomentato davanti a una scuola di partito, va a destra, dove “lo porta il cuore”.

Ecco come Scalfari ha strapazzato Zagrebelsky su Costituzione, referendum e Renzi

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