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La bella ed intensa opera letteraria “Questa maledetta vita” Il “romanzo autobiografico” di Giacomo Leopardi di Raffaele Urraro, edito da Leo S.Olshki , si può definire uno “studio del vero ravvicinato’ dell’ esistenza di Giacomo Leopardi, uomo e genio.
Si tratta di un libro di 445 pagine che indaga le sofferenze fisiche dell’uomo Leopardi
Non si possono scindere le due nature: quella umana e quella geniale di Giacomo Leopardi nel suo essere Unicum, questo si evince anche leggendo la raffinata e attenta ricerca che indaga il morbo, il male, gli stati d’animo, la noia , l’apatia, del grande Leopardi. Nel sottotitolo si legge : “Romanzo autobiografico” , mai scritto in realtà di suo pugno, ma di cui esistono le membra sparse nello Zibaldone, nei manoscritti, nelle opere, nelle poesie e nel ricco epistolario del poeta e del pensatore Giacomo Leopardi.
Raffaele Urraro ricerca le membra e le sonda, le confronta, le assimila da più fonti , le interfaccia e stila nel costrutto filosofico del Leopardi la connotazione di un trittico: l’Io, l’osservazione di se stesso e l’uomo in sé. L’uomo capace di analizzare minuziosamente il desiderio di gloria, la libertà per il suo genio intellettuale, la sua coscienza profonda , la sua logica che procede sempre lucida e con metodo, e che non si lascia scalfire dalle sofferenze di un fisico segnato, sofferenze che egli in un certo senso sublima ed accetta, convivendo con loro senza mai arrivare ad odiare la vita.

Simile al movimento di tre rette originate in uno stesso punto, tali connotazioni esistenziali, ruotando nello stesso verso, coincidono delineando un profilo quasi autobiografico.
Nell’indagine medica delle sue patologie che spesso non ha un vero e proprio fondamento scientifico, ma che rappresenta uno studio interessante di ricerca postuma delle possibili diagnosi che caratterizzano i suoi mali, si traccia un iter di tutti i suoi malanni , dei suoi mali e delle sue malattie che mai sopraffaranno la sua energia intellettuale e il suo genio creativo.
L’analisi di Urraro sembra essere un atto d’amore verso il letterato e verso l’autore di tanta immensa produzione poetica e di pensiero. Questa ricerca così attenta a compenetrare le cause e i sintomi dei suoi mali, tra cui l’ ‘absence ‘, uno stato erroneamente definito quale condizione del morbo epilettico, come si evince dalle ipotesi del Lombroso che l’autore riporta e che egli stesso esclude (perchè Urraro considera tutte le tesi e le confronta), è un viaggio sulle impronte e sugli itinerari di Giacomo Leopardi, a sua volta preso dalla ricerca di una felicità nel “formidabile deserto del mondo”
Nel settembre del 1829 Leopardi scrive: “ Non posso né scrivere né leggere né dettare né pensare”è una dichiarazione agghiacciante che forse è connaturata alla sua convinzione di non essere malato ma di essere in preda ad “una estrema, inaudita sensibilità che colpisce tutti gli organi”. Il suo “sentire” è acuito alla massima potenza e lo sopporta eroicamente, non ne fa mai accenno nelle sue produzioni letterarie se non celandolo in quella critica titanica contro la “Natura matrigna” che l’aveva fatto nascere, reso estremamente sensibile e l’aveva poi abbandonato alle sue atroci sofferenze.
I suoi mali erano contemplati in quello stato di frequente “absence” non come ‘mali’ solo di se stesso ma dell’intera umanità; sente il proprio disperatissimo destino connesso e accomunato al destino di ogni individuo della Terra, anche se non tutti sono consapevoli di quello stato, di quella absence di quella natura interiore che fa pensare all’ Albatros di Baudelaire: ” l’alato viaggiatore” goffo e maldestro, al “principe dei nembi” che “abita la tempesta”.
Di questi mali, delle sue malattie, dei fastidi e delle difficoltà legate alle tentate e fallimentari cure Leopardi parla ampiamente nelle lettere ai suoi familiari, al fratello Carlo, alla sorella Paolina, al padre Monaldo e allo zio Carlo Antici ed anche alla madre ne scrive, ma ella lo accusa di essere non un malato immaginario bensì “uno che gioca a fare il malato” . Di questa corrispondenza non è pervenuta la lettera della marchesa Adelaide Antici, sua madre, ma si intuisce ricostruendo il risentimento del figlio che arriva ad augurarsi la morte affinchè ella creda finalmente quanto siano veritieri i suoi mali.
Spesso Leopardi, ricorda Urraro, individua nel sistema nervoso l’origine delle sue patologie tanto che nello Zibaldone egli annota una riflessione, sostenendo :” quanto il sistema nervoso influisca e modifichi tutta la macchina e la vita umana ciascuno lo sperimenta.”qualcuno arriva ad ipotizzare una nevrosi leopardiana , ipotesi contestata peraltro dallo scrittore Guido Piovene che invece ne ravvedeva ” non un malato di nevrosi, ma un infelice lucido…”.
Come scrisse Antonio Ranieri , che seguì Leopardi in un lungo sodalizio durato sette anni, e che condivise con lui i viaggi e le dimore dove residettero e dove trascorsero ” i giorni e le ore ” il male di Leopardi era indefinibile”.
Così come leopardi scrisse agli amici di Toscana , dedicando il libro dei Canti, si serve della poesia per “consacrare il dolore”e con i canti prende commiato “dalle lettere e dagli studi”e lo fa con gli amici che gli hanno permesso di lasciare Recanati, amici verso i quali prova infinita gratitudine perchè hanno dato gambe alle “care illusioni”e alla speranza che fra le illusioni è “…la più bella”.
Leopardi tocca le corde di una “disperazione placida” , di una dimensione interiore in cui ci si rende conto di aver concluso ogni speranza e in cui l’infelicità diventa una condizione abituale, la quale porta allo svuotamento della propria esistenza e al termine dell’amor proprio, che a sua volta, porta inevitabilmente, alla “noncuranza del sè”, un irrimediabile abbandono.
In questa analisi esistenzialista non affronta solo “se stesso”, ma la condizione dell’intera umanità e il mistero del mondo con uno sguardo profondo e “verista”, “piango la miseria degli uomini, piango l’infelicità degli schiavi e de’ tiranni, degli oppressi e degli oppressori…”.
Leopardi allora, scorge la causa dell’avversione alla vita e della volontà di vivere e la ravvede nel fatto che l’uomo è incapace di “accontentamento”.
Malattia, sofferenza, ristrettezze economiche sono tutte cause e concause che alimentano le lacerazioni del suo sensibilissimo organismo. Anna maria Ortese paragona la sua sofferenza a quella di un dio : ” soffriva come un dio tutto ciò di cui noi non conosciamo che un riflesso”.
Leopardi è uno spirito che scende nel cuore delle cose umane, ribelle ai conformismi, inquieto nel ricercare la sua felicità e i luoghi in cui dare concreta libertà alla sua vita intellettuale.
L’opera di Urraro prende in esame le ricostruzioni mediche delle sue patologie che tentano la ricostruzione, a posteriori , delle diagnosi, ma le guarda alla luce di altre situazioni umane e delle ristrettezze economiche della vita di tutti i giorni che egli affronta e che incidono fortemente sul suo destino.
Uno sguardo attento e critico Urraro lo rivolge anche al suo amico Antonio Ranieri che fu il suo aiutante concreto nel lasciare Recanati e nel realizzare gli spostamenti a Roma, Firenze, Pisa, Bologna .
Cerca di essere un giudice equo Urraro, per l’uomo che, in un certo senso, lo aiuta a liberarsi da certe catene ma che dopo la sua morte cerca in modo meschino di avvantaggiarsi della sua amicizia , tenendo in “ostaggio” per cinquant’anni persino Lo Zibaldone, quasi di 4.526 fogli che costituiscono il diario del grande Leopardi . Ma come dice il nostro autore, dal quale apprendiamo questo scandito e vibrante studio, il genio di Leopardi “viaggia nel tempo” incorrotto, ci arriva intatto “E come il vento” i suoi versi immortali vedranno “Inbiancar novamente e sorger l’alba”. E come oltre al dolore e alle sofferenze ci arriva da lontanissimo la “dolcezza del suo sorriso”.

Il sorriso di Leopardi spezza " Questa maledetta vita"

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