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Contestuale all’accusa che la destra, o destrina, di Francesco Storace e la Lega di Matteo Salvini muovono a Silvio Berlusconi di voler favorire a Roma l’elezione di Roberto Giachetti, il candidato del Pd di Matteo Renzi a sindaco, è quella che a Napoli lo sconfitto nelle primarie, Antonio Bassolino, muove a Renzi di voler favorire la conferma del sindaco uscente Luigi De Magistris. Che si vanta, fra l’altro, di guidare con le sue bandane una città “derenzizzata”.

Secondo questa rappresentazione, non si sa francamente se più dietrologica o masochista, i due candidati messi in pista da Berlusconi con una decisione di vertice e da Renzi con le primarie, e la solita coda di contestazioni, sarebbero stati quindi voluti apposta per perdere, non per vincere.

Guido Bertolaso, a Roma, per quanto provvisto di un curriculum da uomo delle emergenze in una città che nell’emergenza, appunto, vive da troppo tempo, avrebbe al piede le palle di due processi destinati, secondo i suoi critici, ad esplodere durante la campagna elettorale come bombe ad orologeria. Con il candidato costretto a dividersi fra gli impegni elettorali e quelli giudiziari.

A Napoli invece l’ex bassoliniana Valeria Valente, prevalsa di misura sullo stesso Bassolino fra ricorsi respinti e riproposti per presunti brogli ripresi televisivamente nei pressi di almeno sei seggi, sarebbe condannata dal fatto di essere stata costruita politicamente a tavolino dall’”apparato” del partito, appositamente allertato a Roma da Renzi, o dai suoi fedelissimi, e sul posto dal governatore della Campania Vincenzo De Luca. Un “apparato”, secondo la ricostruzione affidata al Fatto Quotidiano dal celebre critico musicale Paolo Isotta, che avrebbe potuto fare affidamento, all’esterno del Pd, anche su Berlusconi, responsabile di avere messo in pista contro il sindaco uscente lo stesso candidato del centrodestra partenopeo già battuto nelle elezioni precedenti: l’industriale Gianni Lettieri. Al quale forse Isotta, pur essendo un dichiarato sostenitore e amico di Bassolino, avrebbe voluto che Berlusconi preferisse l’ex ministra Mara Carfagna o la sempre verace, anche se meno giovane, Alessandra Mussolini.

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Adesso, in attesa di vedere se i leghisti riusciranno davvero, come hanno promesso o minacciato, a far fallire le “gazebarie” romane, come definiscono sarcasticamente le anomale primarie di ratifica anticipate a questo fine settimana da Forza Italia per rilanciare o salvare la candidatura di Guido Bertolaso, si sfogliano le margherite dei possibili candidati alternativi a quelli già indicati. Gli aspiranti, di certo, non mancano. Né a Roma né altrove.

A Napoli è lo stesso Bassolino ad essersi mobilitato con l’apertura, come lui stesso ha annunciato, di “un percorso democratico di consultazione con la città per decidere se reagire o no a un’arroganza insopportabile”. Aggiungendo comunque: “Io dico sì”.

A Roma la sinistra esterna al Pd ha già un candidato alternativo a Giachetti che si chiama Stefano Fassina. E’ naturalmente lo stesso “Fassina chi?” apostrofato da Renzi all’inizio del proprio mandato di segretario del partito spingendolo fuori. Ma se ne cercano o se ne offrono, a seconda dei casi, altri come l’ex sindaco Ignazio Marino e l’ex ministro dei beni Culturali Massimo Bray.

Sempre a Roma, ma sul versante del centrodestra, o di quel che ne rimane, a parte il sempre presente e irriducibile Francesco Storace, sponsorizzato dalla vedova di Giorgio Almirante e da Gianfranco Fini, c’è chi è convinto che alla fine la palla finirà sui piedi di Giorgia Meloni. Lo ha confidato ad Augusto Minzolini, che ne ha appena scritto sul Giornale, quel sornione di Pier Ferdinando Casini avvertendo il gusto maschile di un ballottaggio capitolino fra due donne: la stessa Meloni e la grillina Virginia Raggi.

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Chiamato in causa da più parti come ispiratore o regista di ciò che bolle a sinistra contro Renzi, a livello sia locale sia nazionale, Massimo D’Alema ha appena rilasciato ad Aldo Cazzullo, per il Corriere della Sera, una lunga e per niente promettente intervista nei riguardi del suo rottamatore. Che “somiglia più a Berlusconi che all’Ulivo” ma non riuscirà lo stesso a raccogliere i voti berlusconiani per compensare ciò che ha già perduto ed ancora di più potrebbe perdere a sinistra, perché – ha detto D’Alema un po’ consolando il leader di Forza Italia – “la destra è confusa ma esiste”.

Sconfortato anche per la debolezza della minoranza del Pd, che “non incide”, e per il livello della nuova classe dirigente del partito, accusata di praticare “i metodi staliniani dell’insulto e della calunnia”, D’Alema non esclude proprio nulla: né una scissione, né un suo voto a Bray, se deciderà di candidarsi contro Giachetti al Campidoglio, né un no al referendum d’autunno sulla riforma costituzionale, su cui ha rivendicato il diritto di una libera valutazione. Non una domanda, e tanto meno una risposta naturalmente, forse nella fretta di una pur ampia intervista rilasciata di ritorno da un viaggio in Iran, sul giudizio attribuitogli, sempre dal Corriere della Sera il 7 marzo a firma di Maria Teresa Meli, su Renzi “uomo del Mossad”, cioè del servizio segreto d’Israele. Che non è un bel dire, francamente, di un capo del governo italiano in carica.

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