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Sosteneva lo storico e politologo Guglielmo Ferrero (1871-1942), un fuoriclasse incredibilmente poco valorizzato nel Belpaese, che il bene primario dell’umanità consiste nella liberazione dalla paura. “Buoni governi”, scriveva, “sono quelli che non hanno paura e non ne incutono ai loro sudditi”.  Invece, di solito accade che i governi abbiano paura dei popoli e che i popoli abbiano paura dei governi. Le dittature esasperano al massimo il fattore paura, fino al punto da piegare le possibili resistenze della gente comune e da indurre quest’ultima a chiedere più sicurezza, anziché più libertà, pur di non dover convivere con la paura.

Anche il prepotente Vladimir Putin è posseduto dal demone della paura, dalla paura di perdere il potere. Se così non fosse, l’autocrate russo non avrebbe mandato Aleksej Navalny (1976-2024) a morire in un gulag artico. Né avrebbe cercato con ogni mezzo di ostacolare i funerali del suo oppositore. Né avrebbe ulteriormente intensificato la repressione della dissidenza interna. Insomma, può sembrare un paradosso, ma anche lo zar del Cremlino è prigioniero di un’ossessione che nasconde paura. E fino continuerà ad aver paura, anche di ogni flebile voce critica, non ci sarà verso di attendersi da lui un allentamento del giro di vite cui ha sottoposto l’intera società russa.

La paura dilaga anche in Occidente, i cui governanti sono alle prese con una duplice paura. La paura di sfidare il despota russo, col rischio di accelerare la corsa verso uno scontro nucleare. La paura di smarrire l’appoggio da parte dell’opinione pubblica euro-americana, che alle armi di Marte preferisce da tempo le dolcezze di Venere. E siccome, nelle democrazie, l’orientamento dell’opinione pubblica non si esaurisce in sterili rilevazioni demoscopiche, ma incide sul futuro delle classi dirigenti, anche il meno influenzabile tra i leader non può ignorare il pensiero prevalente nel suo elettorato.

Non a caso i principali alleati del bellicismo russo sono i populisti saliti alla ribalta in Occidente. Populisti che si potrebbero definire “imprenditori della paura”. Sì, perché la paura è il principale propellente per le loro scorribande demagogiche, quella paura alimentata dal senso di insicurezza che la vulgata populistico-sovranistica nutre con malcelata perfidia. La Rete, poi, è il veicolo ideale per scarrozzare in tempo reale insicurezza e paura in tutti gli angoli del pianeta. Il che non lascia indifferente nessun governo.

In Occidente le manifestazioni popolari nel ricordo di Navalny si contano sulle dita di una sola mano, e quelle poche reazioni spontanee spuntate a casaccio non si sono di certo distinte per una partecipazione massiccia e appassionata. Segno che, in Europa, la paura provocata da un dittatore esterno è più forte di qualsiasi conato di solidarietà nei confronti di un perseguitato già sfuggito ad agguati (quasi) letali.

E però l’Occidente deve decidere cosa fare da grande. Deve decidere se continuare ad essere un’idea decidente o se regredire allo stadio di incidente o accidente della storia. Per deliberare in piena autonomia psico-cognitiva, l’Occidente deve liberarsi dal peso della paura. Non già perché una volta sconfitta la fifa del tiranno, l’Occidente debba mettere sul tavolo una pianificazione militare con l’obiettivo di fare piazza pulita di tutti i nemici della libertà, ma perché la Grande Paura che attanaglia il mondo democratico è di tipo culturale e dottrinario. Infatti. Non soltanto l’Occidente non accetta la guerra neppure nel caso di un’aggressione subìta, ma l’Occidente tende a tifare, a prescindere, per tutti coloro che guidano Paesi dove basta deporre un semplice fiore per ritrovarsi sotto processo per poi subire una condanna più pesante di un macigno. Intendiamoci. La pace è un valore assoluto, ma quando la pace sconfina nella resa, di tutto si può parlare tranne che di pace, dal momento che l’accettazione di un armistizio sbilanciato quasi sempre è foriera di nuove pretese e di nuovi assalti.

I governi occidentali non devono eccitare gli animi dei loro rispettivi Paesi, né devono pronunciare proclami militari degni di una filmografia macisteggiante. Devono però aiutare i loro governati a non aver paura. E per riuscirci, devono impegnarsi, sulla scia della lezione di Ferrero, a non aver, innanzitutto paura loro. E per non aver paura loro, devono riscoprire i valori fondanti delle società libere che, tra indicibili sacrifici e lunghissimi fiumi di sangue, sono riusciti a regalare all’America e all’Europa decenni di serenità e prosperità.

Purtroppo, l’Occidente appare sprovvisto di personalità, di guide refrattarie alla paura. Gli servirebbero un Winston Churchill (1874-1965) o un Charles de Gaulle (1890-1970). Ma allo stato non se ne intravvedono emuli ed eredi politici. Cosicché la paura della gente comune finisce per corroborare la paura di chi guida gli esecutivi; e la paura dei governanti finisce per rafforzare la paura dei governati.

E, però, pur non essendo il caso di scomodare Alessandro Manzoni (1785-1873), verrebbe da aggiungere che il coraggio non si vende al supermercato: se uno ce l’ha, bene, ma se uno non ce l’ha, mica se lo può dare. Diciamolo, allora: la partita tra Putin e l’Occidente (per interposta Ucraina) è di tipo culturale più che di natura militare. Se si rinuncia a difendere la ragione sociale e ideale di un sistema politico-istituzionale, il conflitto è perso in partenza, prima che sui campi di battaglia.

Migliaia di russi hanno rivolto l’estremo a Navalny sfidando i divieti e le coercizioni del regime. Un atto di coraggio, che rivela l’insofferenza di cospicue fasce della popolazione nei confronti del capo assoluto. Pensate quante partecipazioni dirette in più avrebbero potuto contare le esequie di Navalny se in Occidente si fosse sceso in piazza per lui e se i governi occidentali avessero caldeggiato queste manifestazioni di solidarietà a casa propria. Sicuramente anche il numero dei manifestanti a Mosca sarebbe risultato assai più elevato.

Paura, maledetta paura. Su di te si fondano la scuola dei dittatori e il doposcuola dei leader democratici.

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