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Renzi, Grillo, Salvini: quando parliamo dei protagonisti della vita politica italiana, lo facciamo, spesso, reagendo all’ultima dichiarazione rilasciata o per commentare la prossima mossa annunciata dall’uno o dall’altro. E ciò sia che si tratti di una conversazione con parenti e amici, o di due chiacchiere fatte al bar con qualche collega, o perfino di un articolo scritto per giornali cartacei o online. Perché per i contemporanei di una qualsiasi serie di accadimenti, la cosa più difficile è prendere le distanze dai fatti in cui si è immersi quotidianamente, per tentare di capire a quale fase storica tali fatti appartengano.

Da questo punto di vista, ovvero allo scopo di mettere l’attualità politica che ci circonda dentro una prospettiva di più lungo periodo, può essere molto utile la lettura di un libro appena uscito, anche se raccoglie scritti risalenti a qualche anno fa. Stiamo parlando di Governare il vuoto (Rubbettino, 2016) di Peter Mair, un politologo irlandese morto a soli 60 anni di età nel 2011.

Sentite un po’: “La democrazia partitica, che normalmente offre un punto di contatto e uno spazio di interazione per cittadini e leader politici”, si è “indebolita”. Questo indebolimento “si esprime nel disimpegno popolare dalla politica attiva, da una parte, e in un indietreggiamento dei leader politici nelle istituzioni dello Stato, dall’altro” (pag. 22).

Ora si tenga presente che Mair, che pure conosceva bene il nostro Paese per aver prima studiato e poi insegnato all’Istituto Europeo di Firenze, non sta parlando qui dell’Italia di oggi, ma di processi avviatisi – quanto meno, a livello europeo – fin dalla fine del secolo scorso. Ma andiamo avanti: “Il crescente vuoto che è venuto a crearsi tra governanti e governati ha spesso facilitato l’emergere della sfida populista che attualmente caratterizza molte delle avanzate democrazie europee”. Ognuna di queste diverse “sfide alla politica convenzionale”, presenti in vari paesi europei, ha un proprio “ventaglio di idee, politiche e interessi”, legati agli specifici contesti nazionali, ma “condivide elementi di xenofobia, razzismo e difesa culturale”, oltre a una “spesso esplicita ostilità” nei confronti della “classe politica nazionale” (pagg. 22-23). Infatti, a fronte “del vuoto creatosi a seguito di un processo di mutuo ritiro dallo spazio politico”, siamo ormai in una situazione in cui “la classe politica stessa è diventata oggetto di disputa”. Vi ricorda qualcosa?

Ma il quadro non è ancora completo. Una seconda tendenza della crisi politica in corso può essere individuata “nella crescente accettazione e legittimazione” di “processi decisionali non-politici o depoliticizzati” (pag. 23). Tra le manifestazioni di questa tendenza, Mair annovera “la sempre maggiore importanza” di quelle che Giandomenico Majone definì come le “istituzioni non maggioritarie”, cioè di istituzioni che “per loro natura, non sono direttamente responsabili verso l’elettorato o i suoi rappresentanti eletti” (pag. 9). Ovvero, se ben comprendo, di istituzioni come la Bce. A ciò Mair aggiunge “la crescente importanza dell’Unione europea come centro decisionale e, ad un livello ancora più ampio, il maggior peso accordato ad altre agenzie internazionali e sopranazionali, come l’Organizzazione per il Commercio Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale”.

Un’altra pennellata: “La sempre maggiore predisposizione di cittadini e politici a cercare la soluzione a controversie e problemi attraverso soluzioni giudiziali o quasi-giudiziali”. Infine, la “crescente accettazione dell’idea che lo Stato moderno è soprattutto normativo, e quindi limitato nelle proprie capacità, piuttosto che politico o redistributivo”. “A causa del continuo indebolimento della democrazia partitica – osserva quindi Mair – e dell’indifferenza verso di essa che si è espressa da entrambe le parti dello spettro politico, ci troviamo oggi di fronte a scenari alternativi proposti da populisti o da esperti visibilmente non politici.”

Ora, forti di questi spezzoni di lettura, ripensiamo a qualcuno degli elementi che ci vengono proposti ogni giorno dalle cronache politiche europee o nazionali. Pensiamo, ad esempio, alle differenze palesi fra i diversi approcci sviluppati prima da Monti e poi da Renzi rispetto ai rapporti fra Italia e Unione Europea, o alla pretesa democrazia diretta via Internet proposta dal Movimento 5 Stelle. Oppure, pensiamo all’allarme volutamente alimentato da certe forze politiche a proposito dei profughi che bussano alle porte dell’Unione Europea, fino alla minacciata costruzione di un “muro” al valico del Brennero da parte dell’Austria. O ancora pensiamo alle vicende dell’Ilva di Taranto e agli interventi ad esse relativi della Commissione europea, da un lato, o della Corte europea per i diritti dell’uomo, dall’altro. E poi ditemi se adesso non è più facile staccare questi frammenti di cronaca dal quadro confuso di un’attualità incalzante e ansiogena entro cui il sistema mediatico ce li propone, per poterli invece inserire in una prospettiva dotata di qualche maggiore significato. Una prospettiva che ci consenta di cogliere, innanzitutto, come l’attualità politica italiana sia sempre più parte di tendenze, di tipo evolutivo o involutivo a seconda dei punti di vista, che si sviluppano a livello europeo (per non parlare degli Stati Uniti e della crisi verticale del Partito Repubblicano).

Bisogna però tenere presente che Mair, collaboratore di riviste quali l’inglese New Left Review e l’italiana Reset, non è stato né un giornalista, né un sociologo della politica, e non poteva quindi accontentarsi di descrivere la fenomenologia della crisi di quella che lui chiama la “democrazia dei partiti”. Al contrario, Mair è stato un politologo che ha teso a darsi conto a livello teorico della natura e delle cause dei fenomeni da lui studiati. Fin dalle prime pagine di quest’opera, rimasta peraltro incompiuta a causa di una morte prematura e improvvisa, Mair formula con chiarezza la sua tesi: “Il tempo della democrazia dei partiti è ormai passato”. E ancora: “Sebbene i partiti continuino ad essere attori della vita democratica, sono ormai così disconnessi dalla società, e perseguono una forma di competizione così insignificante, che non sembrano più capaci di portare avanti il progetto democratico”.

Dopodichè Mair dichiara il suo debito verso l’opera di un politologo americano dal nome impronunciabile, Elmer E. Schattschneider, il quale nel 1942 sostenne la tesi secondo la quale “i partiti politici hanno creato la democrazia” e secondo cui, quindi, “la democrazia moderna sarebbe inimmaginabile senza partiti politici”. Ma una ventina di anni dopo, e cioè nel 1960, formulò l’ipotesi che “il controllo sul processo decisionale politico spesso è fuori dalla portata del normale cittadino”.

La crisi di cui parliamo viene dunque da lontano, ma ha subito un’accelerazione nei decenni più recenti. Se la diagnosi del male sembra condivisibile, più difficile l’accordo sulla prognosi. Secondo Francis Mulhern, che firma la Prefazione al volume, Mair era un sostenitore della necessità di “riforme democratico-popolari nei paesi dell’Unione Europea”. Similmente, in un dibattito seminariale, che si è svolto nei giorni scorsi a Roma, presso la School of Government della Luiss, Sergio Fabbrini ha ricordato come l’attenzione di Mair fosse concentrata sul Parlamento di Strasburgo pensando che, per rivitalizzare la democrazia dei partiti su scala europea, fosse necessario potenziare il ruolo di questa assemblea elettiva. Un punto di vista, questo, non condiviso dallo stesso Fabbrini, che – se abbiamo ben compreso – ha invece sostenuto che il problema dell’Unione è di natura costituzionale e che, per risolverlo, occorrerebbe rivedere i trattati su cui la stessa Unione si basa, puntando a costruire un equilibrio di tipo più nettamente federale tra i poteri dei singoli Stati e quelli dell’Unione.

Problemi complessi. La lettura del libro di Mair, così originale e stimolante, potrà aiutarci a capirne qualcosa di più.

@Fernando_Liuzzi

Come governare le sfide del populismo

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