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Dopo aver letto per anni di mutui subprime come causa scatenante della crisi post 2007, mi capita fra le mani una pregevole analisi della Bis (“Commercial Bank Failures During The Great Recession: The Real (Estate) Story” che ci racconta un’altra storia, finora poco osservata. Ossia quella dei fallimenti bancari, assai meno celebri di quelli del vari broker-dealer che col mattone si sono bruciati le penne, e delle ragioni che li ha provocati.

Narrazione edificante, se non altro perché rivela alcune informazioni che, oltre a sfatare parecchi luoghi comuni, ci danno una misura significativa dei danni che esposizioni scellerate verso soggetti privati poco affidabili possono provocare al sistema finanziario.

La prima informazione che è utile sottolineare è che a far fallire queste banche non sono stati i mutui concessi alle famiglie, ma i prestiti concessi a investitori privati che hanno preso fondi per attività di sviluppo o grandi acquisizioni. Detto in termini più comprensibili, non sono state le famiglie a far fallire le banche ma gli immobiliaristi. Le famiglie, tutt’al più ne hanno pagato il conto.

La seconda informazione utile è l’entità del fenomeno. I dati, riferiti agli Stati Uniti, ci dicono che fra il gennaio 2005 e il 31 dicembre 2013 sono fallite 492 banche, 462 delle quali a partire dal 2008. Una circostanza degna di approfondimento, atteso che questo sterminio si è verificato quando “le pressioni sul funding erano ormai terminate e le banche avevano anche avuto accesso ai fondi della Fed”. Ciò vuol dire che è stata la qualità dell’esposizione bancaria, e segnatamente quella verso il mercato immobiliare, a far fallire queste banche e non la circostanza di una semplice crisi di liquidità, per la quale erano stati approntati per tempo i rimedi canonici.

Per comprendere come il real estate possa far fallire una banca, sono stati individuati tre canali di contagio: gli asset che possono diventare illiquidi, le obbligazioni che su tali esposizioni sono state emesse e i portafogli di crediti immobiliare tenuti fuori dai bilanci delle banche.

L’analisi ha mostrato che le banche, assai poco prudentemente, hanno aumentato le esposizioni al rischio immobiliare sostanzialmente agli albori della crisi, pure se in maniera non uniforme fra i diversi prodotti. Mentre infatti aumentavano l’esposizione verso il settore privato non familiare, quindi verso investitori impegnati in acquisizioni importanti, diminuivano quella verso i prodotti tradizionali, come i muti verso le famiglie e gli acquisti di MBS emessi da agenzie. “L’evidenza – sottolinea lo studio – mostra uno spostamento delle esposizioni dal business tradizionale dei prestiti alle famiglie verso prodotti non core legati al real estate”.

La ragione è facile da intuire: la fame di rendimento, da una parte, e l’euforia dall’altra. Questa constatazione è stata derivata dall’osservazione di un campione delle esposizioni bancaria risalente al 2005. Tale decisione ha aumentato notevolmente la probabilità di crisi bancaria. Al contrario “non è stata trovata evidenza che il credito alle famiglie abbia contribuito ai fallimenti”. Questo non vuol dire che il massiccio default di mutui sulla casa non abbia posto problemi agli intermediari. Solo che in questo caso, essendo stati in gran parte cartolarizzati, il rischio di questi mutui si è spostato dalle banche ai broker-dealer. Insomma, si è realizzata la tempesta perfetta: le banche fallivano perché avevano prestato soldi agli immobiliaristi, i broker perché avevano comprato dalle banche i debiti cartolarizzati delle famiglie. Il mattone si è rivelato una perfetta bomba a frammentazione.

Altra informazione interessante è che “l’esposizione a prodotti MBS, ossia obbligazioni cartolarizzate su mutui subprime e prestiti commerciali, è stata importante, ma meno delle altre e solo per le grandi banche. Le piccole non ne hanno subito l’impatto, probabilmente perché il livello di esposizione a questi prodotti era molto basso”. Quindi la dimensione di una banca è una variabile rilevante anche per la qualità, oltre che per la quantità, dei rischi che finisce con l’accumulare.

Infine, è opportuno notare che “i prodotti finanziari legati al real estate hanno avuto performance peggiori, nelle banche sopravvissute, rispetto a quelli non real estate durante la Grande Recessione”. Ciò ha finito con l’aggiungere pressioni sui bilanci bancari, anche in ragione del peso specifico rilevante dell’esposizione immobiliare sui crediti in sofferenza (NPLs).

Riepilogo: il mattone è un asset che va preso con le pinze e maneggiato con cura. Non a caso è al centro di tutte le analisi sulla stabilità finanziaria che le banche centrali producono di continuo. La cosa incredibile è che siamo dovuti arrivare sull’orlo del crack globale per capirlo.

E non è affatto detto che abbiamo imparato la lezione.

Twitter: @maitre_a_panZer

Le banche USA sono fallite a causa degli immobiliaristi

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