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Questa intervista è stata pubblicata sul Messaggero

E’ il 19 settembre 1991, ore 13.30. A 3.210 metri d’altezza sul confine fra l’Italia e l’Austria due turisti tedeschi fanno la più grande scoperta archeologica del secolo senza rendersene conto: trovano il corpo dell’”uomo venuto dal ghiaccio”, come sarebbe stato battezzato. O uomo del Similaun, dal nome della montagna altoatesina vicina al ritrovamento. Una delle mummie più antiche dell’universo, che gli austriaci, i primi ad averla accudita per sei anni, chiamano Ötzi. Quest’uomo visse tra il 3350 e il 3100 a.C. Aveva 45 anni, era alto 1,60, pesava cinquanta chili e portava i capelli scuri, lunghi e ondulati. Aveva la barba. Ma per appena 92 metri e mezzo l’uomo del Similaun giaceva in territorio italiano. E perciò dopo l’inevitabile braccio di ferro, dal 1997 lui è tornato a casa, in Italia, dove riposa nel Museo archeologico di Bolzano.

E allora nessuno meglio dell’altoatesino Eduard Egarter Vigl, 66 anni, già a lungo primario ospedaliero di anatomia patologica e medicina legale a Bolzano e attuale direttore scientifico della Claudiana (struttura universitaria della sanità), conosce la seconda, lunga vita della mummia del Similaun. Da diciott’anni è il responsabile della cura e della conservazione. Più che un medico personale ne è diventato l’amico e custode d’ogni segreto.

Come sta l’uomo venuto dal ghiaccio?
Si trova in una cella frigorifera al Museo archeologico di Bolzano, struttura che è il frutto di un ventennio di sperimentazioni. Un processo empirico che subisce modifiche continue quando la tecnologia ci dà qualche nuova possibilità. E quando la mummia, che stranamente non è sempre stabile, ma cambia, lo richiede.

Di che soffre l’illustre paziente?
Di due “malattie”. La prima è l’ossidazione. Sta in un ambiente aerato. Sappiamo che l’aria che respiriamo ha il 25 per cento di ossigeno, che è un gas molto aggressivo: attacca tutti i composti organici e li ossida. Non è l’ideale per una mummia che deve mantenersi per generazioni. L’altro rischio è la disidratazione. La mummia è una cosiddetta mummia umida. Significa che nei tessuti, al contrario di quanto non manifestino, per esempio, le mummie egizie, che sono secche, c’è una certa quota di acqua. Il che permette al campo sperimentale di riattivare dei composti chimici organici e studiarli meglio.

Che fa per “tenerla in vita”?
Per cinquemila anni l’uomo è stato conservato nella neve e nel ghiacciaio: che cosa possiamo fare meglio noi della natura, che l’ha mantenuto così a lungo? L’unica cosa è creargli un ambiente sterile attorno. Eliminare i batteri, i funghi, i parassiti, tutti gli inquinamenti che, al di fuori di un ambiente protetto, lo intaccherebbero. Filtriamo l’aria della cella e tre volte all’anno sottoponiamo la mummia a profondi test micro-biologici.

I controlli dal medico, come quelli che fa ognuno di noi…
Sono controlli di due livelli. Quello più basso avviene ogni settimana. Io dedico mezz’ora a guardare il sistema della registrazione del colore. Determinati punti della mummia sono illuminati con una luce artificiale ad onda lunga fissa e la luce riflessa viene registrata e analizzata per capire se ci sono cambiamenti. E poi il livello alto dei tre test.

Che cosa la colpì quando la vide per la prima volta?
L’integrità del corpo. Professionalmente sono abituato a vedere i morti, anche quelli non proprio recenti. Ma non mi era mai capitato prima, neanche vedendo i cadaveri dei soldati della Grande Guerra che i ghiacciai restituiscono quando si ritirano. Mi colpì molto anche il volto espressivo. Ha il naso schiacciato e il labbro piegato in giù, ma gli occhi ci sono e si vedono. Un’espressione viva.

Di che colore sono?
Occhi blu. Ma le analisi genetiche dicono che in origine l’iride fosse marrone: c’è stata una trasformazione del colore nell’arco degli anni.

La scoperta più importante o sorprendente di questa lunga convivenza?
La scoperta casuale della freccia sulla spalla sinistra. Quando il corpo fu trasferito da Innsbruck a Bolzano scoppiarono grosse polemiche politiche. Gli austriaci non volevano, i movimenti oltranzisti della destra dicevano “questo è un tirolese, deve rimanere qui, che ci fa in Italia?, gli italiani poi lo portano a Roma” e così via. Ma i patti erano chiari. Il ritrovamento era stato definito in territorio italiano. “Vedrete, fra tre mesi ce lo restituiranno perché non riescono a conservarlo”, ironizzava la stampa austriaca. Anche quando vennero pubblicati i primi risultati scientifici dei team italiani o altoatesini o anche misti con partecipazione locale i commenti non erano lusinghieri. Ma noi mantenemmo tutti gli impegni presi dagli austriaci anche con gli studiosi americani. E proprio in un’occasione del genere abbiamo scoperto, con una particolare radiografia, che una punta di freccia aveva colpito la mummia sulla spalla sinistra. Abbiamo scoperto noi la causa della sua morte! Per me questa è stata una grande soddisfazione e un po’ una bella ripicca di fronte alle critiche ricevute”.

Ma quest’uomo millenario che lavoro faceva?
Non lavorava manualmente. Viveva nel periodo di passaggio tra la società dei cacciatori-raccoglitori e quella agricola. Era muscoloso e ben fornito, ma aveva le mani da pianista, non certo da uno che utilizzasse le pale.

E’ vissuto cinquemila anni: quanto potrà vivere ancora?
La conservazione attuale permette un mantenimento in buone condizioni per moltissimi decenni.

L’uomo aveva sessantun tatuaggi sul corpo, quasi come un calciatore d’oggi…
In realtà sono tatuaggi di tipo sanitario e poco ornamentali. Fatti con polveri di carbone che, immesse nel tessuto, provocano reazioni infiammatorie superficiali, ma alleviano il dolore profondo.

C’è chi parla di maledizione: otto persone che hanno avuto a che fare con la mummia sono morte. Normale statistica o meglio essere scaramantici?
No comment. Ma ogni cinque anni faccio un check-up medico. Se poi esco per strada e una macchina mi mette sotto…

Le capita mai di parlare al suo fedele paziente?
Nei lunghi periodi di solitudine in due non credo di avergli parlato. Anche se non posso averne l’assoluta certezza… Lui ha uno sguardo espressivo, ma quegli occhi fissi nascondono anche una certa vena di cattiveria. E talvolta mi viene da chiedergli: ma che vita hai vissuto, quali patemi hai sofferto, e quali preoccupazioni, e gioie?

Se la mummia si risvegliasse, che cosa direbbe oggi?
Sarebbe sopraffatta dal mondo contemporaneo. Chiederebbe di tornare a dormire per sempre.

C’è un ultimo, grande mistero che non ha ancora risolto?
Una volta all’anno io salgo sul punto del ritrovamento, in autunno, quando le baite chiudono, c’è calma e i pensieri possono vagare. E sempre mi chiedo: ma che cosa è venuto a fare quassù? Il posto, a 3.200 metri, è formato da un piccolo canalone con pareti di pietra alte sette, otto metri sul lato posteriore. Sul lato anteriore la valle è molto ripida con abissi. Si ha una visione molto bella e ampia della valle della Tisa e del lago artificiale di Vernago. A sinistra c’è la grande montagna del Similaun, 3.500 metri, a destra la punta del Finail, di fronte la catena dell’Ortles-Cevedale. Certo, all’epoca il clima era diverso, faceva un po’ più caldo e in altitudine c’era maggiore vegetazione. Ma lassù non c’è nulla. Regna la più completa solitudine. Che ci faceva quest’uomo con le mani da pianista, colpito a morte dalla freccia? Questo è il grande mistero.

I miei 18 anni di cure e segreti con la mummia del Similaun

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