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La rottura tra sindacati e Confindustria sulla riforma del modello contrattuale, il possibile intervento del Governo, la via italiana per un nuovo sistema di relazioni industriali. Formiche.net ha intervistato Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato ed esponente Pd, sindacalista Cgil per oltre trent’anni.

Come giudica quanto sta accadendo nei rapporti tra Confindustria e sindacati? 

Così tesi i rapporti tra sindacati e Confindustria non lo erano mai stati. La rottura sulla riforma del modello contrattuale è stata drammatica. Le due parti sociali hanno abdicato entrambe a esercitare la loro funzione. Semplicemente incomprensibile. Un autogol reciproco che dimostra l’arretratezza di cui purtroppo l’Italia ancora oggi è vittima.

Che cosa la preoccupa di più?

Non è accettabile che non si trovi un punto di mediazione tra chi rappresenta i lavoratori e chi rappresenta le imprese. Vuol dire che le parti sociali in questo momento non hanno classi dirigenti che sono in grado di innovare il modello di relazioni industriali e di adeguarlo al mondo che è cambiato.

Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha detto testualmente che “i sindacati italiani, con l’impostazione che hanno, sono un freno per tutto il paese”.

Non posso credere che Squinzi lo pensi davvero. La rappresentanza sindacale – per come viene svolta oggi – va sicuramente innovata ma non può essere considerata un freno per il Paese. Mi ha davvero colpito che la rottura sia arrivata dopo mesi di confronto. Non può essere il merito ad averla determinata. La mia esperienza mi dice che in queste trattative il punto di mediazione si riesce sempre a trovare.

Perché la riforma del modello contrattuale va fatta?

Perché la produzione non è più quella del passato. Serve uno strumento nuovo che sia al passo con i tempi. La soluzione oggi è lo spostamento del baricentro sulla contrattazione aziendale. Peraltro, molte importanti materie sono già demandate dal contratto nazionale al secondo livello di contrattazione.

In mancanza di un accordo, che farà il governo?

Il governo aveva una delega in campo con il Jobs Act che non ha esercitato nel rispetto dell’autonomia delle parti sociali. Se persiste questa situazione di scontro, penso che il ministro del Lavoro – prima di andare avanti in modo definitivo – debba provare a determinare nel merito le condizioni di un consenso delle parti sociali. Tanto l’operazione deve essere attuata nei luoghi di lavoro e ciò potrà accadere prima e più facilmente con una mediazione tra impresa e sindacati. Certo, se anche questo tentativo non dovesse andare a buon fine, l’intervento diventerebbe inevitabile.

Lei cosa propone?

Penso che sempre di più ci si debba avvicinare al modello tedesco adattandolo alla nostra realtà e alla nostra storia. Ciò significa affrontare il tema delle funzioni del sindacato che deve diventare più cooperativo e partecipativo all’interno delle aziende.

Molti dicono però che quel modello sia entrato fortemente in crisi con lo scandalo Volkswagen.

Non è vero. Non ci sono evidenze che il modello di relazioni industriali esistente in Germania c’entri qualcosa con lo scandalo Volkswagen. I modelli sono una cosa, le persone che li mettono in pratica un’altra.

Nel suo ultimo libro-intervista Romano Prodi sostiene che la divisone sindacale è un elemento di inefficienza del sistema Paese e che si dovrebbe tornare all’unità tra i sindacati.

Assolutamente ha ragione Prodi. E’ una delle grandi questioni che questo Paese si trascina dietro da troppo tempo. Il vero limite sono le divisioni sindacali. Anche per colpa di chi nelle organizzazioni sindacali fa delle divisioni la propria bandiera identitaria.

Vuole dire quindi che la tripartizione tra i sindacati confederali deve essere superata?

Penso che il tema vada affrontato. Per chi come me è cresciuta nella Cgil di Lama e Trentin, il faro dell’attività sindacale è sempre stato l’unità. Certo, non si azzerano facilmente tre diverse organizzazioni con le loro rispettive storie. La ricerca della sintesi unitaria è l’ABC di un sindacalista e dovrebbe esserlo anche di chi rappresenta le imprese.

Capitolo scioperi. A Roma il Garante ha proposto una franchigia durante il periodo del Giubileo. 

E’ un tema molto serio su cui va fatta una riflessione rapida. Prima che si avvii il Giubileo, penso che le istituzioni competenti e le organizzazioni sindacali debbano trovare un’intesa. Stiamo parlando del Giubileo, abbiamo gli occhi del mondo addosso. Per me viene prima il fatto che Roma sia accogliente e funzionante. E tutti devono contribuire.

I dati sulla disoccupazione sono in miglioramento. Merito degli sgravi fiscali o del Jobs Act?

Innanzitutto, c’è un contesto favorevole a livello europeo e internazionale. Il governo ha fatto un ottimo lavoro nell’intercettare queste condizioni e poi nel fare scelte appropriate per favorire la ripresa. Creare elementi di fiducia in economia è fondamentale e questo governo l’ha fatto. Sicuramente il Jobs Act è servito, anche semplicemente per aver fatto diminuire l’occupazione precaria con l’aumento dei contratti a tempo indeterminato. Lo stesso vale per gli 80 euro in busta paga che hanno fatto aumentare i consumi e la fiducia.

Su cosa insisterebbe di più?

Forse si potrebbe fare di più sugli investimenti. Dobbiamo scuotere le imprese affinché investano di più e scommettano sul nostro Paese. Però il cambiamento si sta avverando.

Parliamo di fisco. Il premier ha promesso con la prossima legge di stabilità il taglio delle tasse sulla casa e sulle imprese. E’ una misura di destra o di sinistra?

Certamente di sinistra. E’ sempre bene ridurre la tassazione, soprattutto se si fa un’operazione complessa come quella che stiamo facendo, all’interno della quale inserire più misure, compreso anche il taglio delle imposte sulla casa. Comincerei però con l’esentare i ceti medio e basso ed escluderei i proprietari delle abitazioni di lusso. La detassazione della prima casa va comunque accompagnata con la riforma del catasto per adeguare i valori catastali a quelli di mercato.

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