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Oltre la retorica, al di là della soddisfazione personale per la standing ovation alla Knesset, Matteo Renzi davanti al parlamento israeliano ha detto una cosa molto impegnativa che solo apparentemente sembra ovvia: “La vostra sicurezza è la nostra sicurezza”. In altri termini, la difesa di Israele è una priorità per l’Italia. Dunque, è andato al di là dei riconoscimenti di prammatica sulla pace o sulla lotta all’antisemitismo, ha preso un impegno che ha già delle conseguenze molto concrete e potrebbe averne ancora di più, intanto nella lotta contro il terrorismo islamico, nella collaborazione organica tra i servizi segreti e le forze di sicurezza dei due Paesi.

Resta il dissenso sull’accordo con l’Iran. Bibi Netanyahu non è tipo da negarlo e del resto lo aveva spiattellato anche al ministro americano della Difesa Ashton Carter. Un Renzi prudente lo ha definito “un compromesso utile”, da verificare giorno per giorno, ma “non sarà mai possibile un compromesso sul futuro di Israele”.

Proprio questo svela il punto debole dell’intesa (della quale, va ricordato, si conoscono solo le versioni americane ed europea che non coincidono del tutto, mentre a Teheran c’è già chi parla solo di bozza o di brutta copia) e ancor più della scelta ormai imminente di togliere le sanzioni. L’Iran ha ottenuto molto e ha dato poco; secondo i critici israeliani sostenuti anche da una veemente analisi di Henry Kissinger e George Shultz, ha preso il massimo anche sul nucleare perché fra dieci anni potrà fabbricare la bomba atomica in pochi mesi. Ma soprattutto ha avuto un enorme riconoscimento politico-diplomatico senza concedere nulla sul punto più scottante visto che l’obiettivo strategico del regime degli ayatollah resta di spazzar via Israele.

E’ importate quindi che il leader di un Paese europeo vada a Tel Aviv e proclami senza mezzi termini il suo sostegno, ancor più importante vista la freddezza (per usare un eufemismo) che circola oggi in Europa nei confronti di Israele. L’Italia potrebbe fare un passo ancora candidandosi apertamente a fare più che da sponda, da vera porta d’ingresso.

Roma ha delle carte da giocare su più fronti. E’ vero, non ha i mezzi militari di Londra e Parigi, ma per una serie di ragioni i governi inglese e francese hanno combinato negli ultimi tempi parecchi guai in Medio Oriente e in Nord Africa. Inoltre nessuno mette in dubbio l’amicizia italiana nei confronti dei palestinesi (anzi bisognerebbe parlare di vicinanza) fin da quando Bettino Craxi finanziava Yasser Arafat. Quindi nessuno può negare le sue credenziali per svolgere un ruolo diplomatico attivo. La linea italiana sulla Palestina (due popoli, due Stati) non è del tutto condivisa da Netanyahu quanto meno nelle sue implicazioni, ma coincide con quella americana e con la formula ormai prevalente nella diplomazia internazionale.

Tutto bene? Non proprio. Il dissenso di fondo che divide Israele dagli Usa e dalla Ue dipende dalla maledizione dei due nemici. Uno è quello tradizionale, il più noto: il regime teocratico iraniano che a questo punto si estende con una certa continuità territoriale in due terzi dell’Iraq (e qui sono stati gli americani a dare tutto il potere agli sciiti educati a Qom) e parte della Siria fino al Mediterraneo perché il sud del Libano è controllato da Hezbollah il partito combattente sostenuto da Teheran. L’altro nemico è il Califfato guidato, come raccontava un pezzo del New York Times “dai veterani di al Qaeda in Iraq e dagli ex ufficiali bahatisti di Saddam Hussein“. Anche l’Isis ha ormai un territorio in via di espansione e appendici importanti in tutto il Nord Africa.

Dunque, si tratta di una lotta su due fronti. Ma per Israele il nemico peggiore resta l’Iran. E’ la stessa opinione di Kissinger il quale parla di “impero persiano sotto l’etichetta sciita”, mentre l’Isis è “un gruppo di avventurieri con un’ideologia molto aggressiva”, dunque più facile da sconfiggere. Purtroppo lo si diceva già dei talebani negli anni ’90. Anche allora Arabia Saudita e Pakistan, i due principali alleati degli Usa, sembravano far da baluardo; invece si è poi scoperto che finanziavano le forze jihadiste fino alla Base di Osama bin Laden. “Da un punto di vista geostrategico l’Iran è un problema più grande”, insiste Kissinger e l’opinione è condivisa dagli israeliani. Per questo sarebbe catastrofico dare in mano agli ayatollah l’arma atomica. Ma attenti a sottovalutare la portata anche militare della guerra asimmetrica combattuta da quel “gruppo di avventurieri”. Né in Afghanistan né in Iraq sono stati ancora sconfitti. E dio non voglia che riescano a penetrare davvero tra il Sinai e Gaza.

Obama ha fatto un azzardo, senza dubbio, però sdoganando l’Iran intende costringere l’Arabia Saudita a uscire dalla sua ambiguità, spezzando il cordone ombelicale con l’esercito sunnita del Califfo e con i suoi amici e sostenitori wahabiti così forti e influenti nella penisola araba, fino ai vertici della monarchia. Kissinger se ne rende conto, ovviamente, ma considera gli eredi di Ibn Saud alleati tutto sommato affidabili pur con le loro contraddizioni interne. E l’Iran è molto più forte e ben attrezzato.

Sembra un ragionamento da pensatoio geopolitico, invece è la questione chiave che avremo di fronte in modo sempre più chiaro nei prossimi mesi. Il dissesto mediorientale è tale che nessuno può mettervi rimedio da solo. Ci sarà bisogno di tanti interventi diversi in un fronte multiplo e vasto sul piano, politico, militare, geografico. Affinché non accada come in Libia, gli americani debbono smetterla di pensare che si tratta di una rogna locale da lasciare a subpotenze regionali, invece “deve sviluppare una dottrina strategica per la regione”, su questo il vecchio Kissinger ha ragione. Quanto all’Unione europea non può pensare solo agli affari economici (come sta facendo la Germania), mentre Israele deve uscire dall’auto-isolamento e giocare sull’intero scacchiere. Se è così, anche l’Italia del “soft power” può dare il suo contributo.

Stefano Cingolani

Perché Israele non si fida dell'Iran

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