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À la guerre comme à la guerre. David Cameron sta lavorando per ottenere il voto positivo della Camera dei Comuni perché anche il Regno Unito partecipi ai raid aerei in Siria, dopo lo smacco del 30 agosto 2013 quando gli alleati Libdems e 30 MPs del suo stesso partito Tories gli negarono, con un voto parlamentare, la possibilità di andare a bombardare il regime di Damasco.

Il primo ministro britannico sta ponderando bene ogni mossa, perché la sua ossessione è quella di non fare la fine di Tony Blair, screditato dalla guerra in Iraq nel 2003, e braccato da ogni tipo di inquiry seguita al fallimento e alle menzogne della pre-emptive action nei confronti del regime di Saddam Hussein.

Lo scacchiere interno e quello internazionale si sovrappongono per il leader conservatore che, a differenza del 2013, può contare su un governo monocolore Tories senza dovere chiedere l’appoggio agli altri partiti di Westminster. Tuttavia, l’esigua maggioranza a sua disposizione – appena 17 parlamentari – e l’ambizione di essere un One-Nation Prime Minister faranno sì che Cameron cercherà la più ampia maggioranza possibile per avere un chiaro mandato per gli airstrike in Siria.

La risoluzione approvata all’Onu lo scorso venerdì è sicuramente un punto su cui il Premier si soffermerà anche in opposizione a quanto fece Blair nel 2002-2003, quando portò il Regno Unito in guerra senza un esplicito mandato delle Nazioni Unite, dividendo l’Europa, il Paese e anche il suo partito. Cameron vuole evitare tutto questo, specie in una fase in cui ha, paradossalmente, bisogno di rapporti distesi con il Continente anche in vista della trattativa Uk-Ue per scongiurare una Brexit che presenta più incognite che punti fermi (tanto che è ancora purple, poco chiaro, il quesito a cui i cittadini britannici dovranno rispondere).

Il premier è volato da François Hollande per mostrare come il sostegno degli inglesi alla Francia vada oltre la Marsigliese cantata dagli 80mila di Wembley lo scorso mercoledì. Gli ha offerto l’uso delle basi della Raf a Cipro. Anche questo rapprochement – dovuto, visti i fatti del 13 novembre – marca una netta differenza rispetto all’epoca dei fraintendimenti tra il suo predecessore laburista e Jacques Chirac. Ma gli eventi – e il mondo – sono cambiati, ed ora è la Francia a fare la parte degli Usa, e l’Isis non è l’Iraq di Saddam.

Gli sherpa del premier sono già al lavoro dopo che la commissione per gli Affari esteri della Camera dei Comuni ha pubblicato un report in cui si sconsiglia apertamente “l’uso della forza in Siria senza una strategia coerente per ottenere risultati tangibili”. Il governo sembra adottare una strategia attendista per ottenere il via libera e ha annunciato che presenterà la motion solo quando sarà sicuro del voto positivo in Aula. Intanto, nello Strategic Defence and Security Review, principale documento ufficiale del Governo in materia di Difesa e Sicurezza, Cameron e il suo Defence Secretary, Michael Fallon, hanno annunciato investimenti per 12 miliardi di sterline entro il 2025 per nuove navi da guerra, nuovi aerei e nuovi equipaggiamenti per le forze armate. Un cambiamento di rotta deciso rispetto ai tagli decisi dal governo di coalizione del 2010.

Se Cameron è convinto che questa volta i suoi backbenchers gli diranno sì, i problemi maggiori potrebbe averli il nuovo leader laburista, Jeremy Corbyn, che ha escluso il backing del Labour a una eventuale azione in Siria senza una risoluzione Onu. Una volta cambiato il quadro della situazione (ma attenzione: la risoluzione non fa riferimento al Chapter 7 della Carta delle Nazioni Unite e non autorizza legalmente l’uso della forza in Siria), si teme che Corbyn si assesti comunque su posizioni neutraliste e pacifiste – d’altronde il suo passato politico parla chiaro – e perda una fetta del suo partito e del suo Shadow Cabinet. Una condizione che non può permettersi se vuole restare in sella, almeno fino alle elezioni in Scozia del maggio 2016.

Tutte le mosse di Cameron per portare il Regno Unito in Siria

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