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Dopo un primo trimestre fin troppo facile e ottimista, questo 2015 sta diventando l’anno dei fantasmi.

Il primo, comparso ad aprile/maggio, fa quasi tenerezza, a distanza di appena 4 mesi. Una correzione dei rendimenti dei bond comparsa in concomitanza con un timido rimbalzo di petrolio e commodity venne additata da molti come l’inizio di una fase di reflazione, tale da destabilizzare i tassi, impattare sulle politiche monetarie globali, addirittura condurre ad una conclusione anticipata del QE di Draghi. In realtà si trattava degli effetti della liquidazione di un eccesso di posizionamento sui bond europei nato da un equivoco sull’impatto del QE di Draghi sul mercato governativo europeo.

Il secondo, onestamente, è stato assai più reale, alla fine. La crisi greca, per la quale  il normale buon senso suggeriva l’epilogo che poi si è avuto, è giunta,  a inizio luglio, a un passo da una pericolosa deriva, prima che Tsipras, messo con le spalle al muro dall’EU, facesse un passo indietro dal burrone. Resta però da vedere se l’impatto sui mercati sarebbe stato cosi nefasto.

Ed ora ci troviamo ad avere a che fare col fantasma dell’implosione dell’economia cinese, a turbare il sentiment globale. L’incauto posizionamento della manovra sul cambio ha esacerbato un clima già reso cupo dal calo delle commodities, fornendo gli ingredienti per una “growth scare globale”.

Che la matrice della recente fiammata di volatilità sia quella lo si nota anche dalla performance degli asset più interessati da un eventuale crollo della domanda cinese (vedi DAX – 10% in 8 sedute). Per le commodities è un circolo vizioso. Più scendono, più alimentano i timori macro, che riverberando sulla domanda attesa, le indeboliscono.

Il fatto che le minute FED ieri abbiano riportato preoccupazioni sulla situazione cinese (nota che il FOMC a cui si riferiscono è quello di fine luglio) ha più che bilanciato l’effetto della dovishness delle stesse.

L'incubo cinese che funesta le Borse

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