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Salvo clamorose svolte, pochi giorni separano la Grecia dall’esito di un importante referendum consultivo che potrebbe decidere perfino la permanenza stessa della Grecia nell’Unione europea. Un voto che rievoca legittime paure e aspettative dopo anni difficili e politiche di austerity che hanno esasperato la popolazione, contratto l’economia e reso di fatto impossibile la restituzione del debito.

Laddove il buon senso suggerisce che mettere sul lastrico il proprio debitore non è il miglior modo per riscuotere crediti, viene da chiedersi quanto la situazione attuale – con la Grecia sull’orlo del default – rispecchi piuttosto le intenzioni non dichiarate del Fondo Monetario. Spesso sconfessata dai suoi stessi esperti nell’applicazione di rigide politiche macroeconomiche, l’istituzione finanziaria è sembrata più interessata a imporre l’universalità delle proprie teorie che non a riscuotere un credito relativamente modesto.

D’altra parte, non sarebbe la prima volta che l’egemonica visione del Fondo si impone sulla volontà di cittadini e parlamenti con risultati discutibili. La teoria della shock economy, ovvero “malattia” indotta, prescrizione di rigidissime cure e annessa lunga dipendenza dalle stesse, può essere compresa soltanto guardando agli attori finanziari internazionali come soggetti politici a tutti gli effetti e non soltanto come istituzioni bancarie o monetarie. Lo scontro in atto non è, insomma, soltanto tra scuole economiche, ma tra politiche da attuare per realizzare visioni contrapposte del mondo.

Tsipras ha forse compreso che non avrebbe spuntato nulla negoziando sui meccanismi finanziari, su dove applicare il punto in più di Iva o sul singolo dettaglio della riforma (pur necessaria) del sistema pensionistico, poiché dietro le prescrizioni del Fondo Monetario, avallate dall’Unione Europea, risiedono ben altre dinamiche. Il presidente greco, convocando il referendum, ha quantomeno sollevato un velo d’ipocrisia, riportando la battaglia sul terreno politico che Juncker e Lagarde, per primi, hanno scelto.

Il referendum del 5 luglio, al netto della retorica, non è solo una questione greca poiché tocca la stessa ragion d’essere dell’Unione Europea. Un’Unione al momento schizofrenica, sospesa anch’essa tra ritorni al passato e un futuro ancora incerto. Un’Unione più di nome che di fatto, la quale pretende di gestire l’afflusso di migranti assistendo al de profundis di uno dei suoi Stati-frontalieri che ne ospita migliaia. O che critica aspramente la dissolutezza delle classi dirigenti di alcuni suoi paesi membri, salvo poi resuscitare quella di Kiev predisponendo costosi piani per stabilizzarne l’economia al collasso.

Il referendum è dunque molto più che un sì e un no del popolo greco alla proposta dei creditori: indipendentemente dal risultato è un’opinione e – si spera – il momento d’avvio di un pensiero critico su quale Europa vogliamo davvero, una freccia scagliata al cuore dell’identità europea da parte di uno dei paesi che potrebbe più di altri contribuire a costruirla.

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