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Sono in totale, radicale dissenso da coloro che si sono opposti e continuano a criticare la costituzione del Fondo salva imprese voluto dal governo Renzi. Lo sono a partire non da una mia partecipazione a ovattati centri studi spesso lontani dai veri problemi incontrati ogni giorno (sul campo) da parte di chi si occupi di imprese, ma dalla mia ormai pluriennale esperienza tuttora in corso di componente della task force della Regione Puglia, chiamata a misurarsi quotidianamente con emergenze aziendali di varia natura.

Emergenze – voglio dirlo subito a scanso di qualsiasi equivoco – alle quali non si è mai risposto con interventi di natura assistenziale, ma con proposte (ove tecnicamente possibili) di interventi di risanamento e rilancio per imprese in difficoltà, ma con evidenti (e documentate da accurate due diligence) prospettive di ricollocazione competitiva sul mercato, grazie all’apporto di equity, a nuovi assetti gestionali e manageriali e con nuove relazioni industriali che molto spesso (è bene sapere anche questo) hanno visto i sindacati accettare (consapevolmente) mobilità incentivate, secche riduzioni salariali, e prolungate moratorie nell’applicazione di istituti di contrattazioni integrative, pur di tenere aperte fabbriche con chiare prospettive di rilancio.

Tutti interventi questi ultimi che – è opportuno ricordarlo – hanno inciso “a sangue” sulla carne viva di migliaia di persone che ogni giorno devono gestire con crescenti incertezze le proprie famiglie, senza godere delle retribuzioni di tanti garantiti di Stato come noi professori universitari, o dei vitalizi (sinora intoccabili) di qualche ex parlamentare (anch’egli docente universitario) dal cui pulpito si impartiscono ogni giorno lezioni di liberismo.

Allora uno strumento come quello varato dal governo Renzi è assolutamente necessario nella prospettiva prima indicata: se mai, vi sarebbe da osservare che avrebbero dovuto già costituirlo altri Esecutivi molto prima di quello in carica. Comunque, lo ripeto, lo strumento è indispensabile, anche se avrei da richiamare l’evidente limitatezza del capitale di avvio della società ed anche quello massimo sottoscrivibile, insufficienti l’uno e l’altro per gli interventi possibili.

Dovranno essere assolutamente chiari nello statuto della società il quadro operativo e i limiti invalicabili della sua azione, ma, a mio avviso, non dovrebbero essere esclusi anche interventi di reindustrializzazione in siti ove la dismissione di vecchie aziende ormai fuori mercato non abbia cancellato fattori fondamentali per il rilancio degli stessi, ma con nuove aziende.

In tal caso si potrebbe anche prevedere che un intervento di reindustrializzazione di un’area dismessa possa avvenire solo su proposta di un soggetto privato che, però, venga selezionato e stimolato pubblicamente a valutare la convenienza di un nuovo investimento cui associare in joint-venture capitale pubblico del Fondo, con l’obbligo di riscatto da parte del privato della stessa quota pubblica, a condizioni da stabilirsi nei patti parasociali.

Circa l’intervento del Fondo in una Newco per affittare il ramo d’azienda dell’Ilva è del tutto evidente che bisognerà valutare con grande attenzione l’intera operazione, le sue dimensioni e i tempi di intervento: un’operazione di cui però dovranno essere assolutamente chiare (a tutti in Italia e all’estero) le finalità che sono quelle di conservare al patrimonio industriale nazionale – rilanciandola in esclusive logiche di mercato – l’Ilva (che non è solo a Taranto) e il suo grande impianto del capoluogo ionico che è il pilastro portante di larga parte della meccanica italiana.

Se ne facciano una ragione a Bruxelles eurocrati (che forse non hanno mai visitato il sito di Taranto) e nell’Unione europea altri gruppi siderurgici esteri concorrenti: se l’Italia vorrà restare una grande potenza industriale di rango mondiale, l’acciaieria di Taranto non può essere dismessa né a causa dell’estremismo ambientalista, né per le sollecitazioni dei suoi competitor. Non lo vogliono la stragrande maggioranza dei tarantini, la Confindustria nazionale, i sindacati confederali e di categoria, numerose università italiane e alcune grandi banche del nostro Paese. E conseguentemente il governo Renzi.

 Federico Pirro (Università di Bari)

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