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La nuova Spa Salva Aziende, introdotta con decreto del ministro dello Sviluppo economico, potrà intervenire in imprese che, pur risultando in «squilibrio patrimoniale o finanziario», dovranno essere caratterizzate da «adeguate prospettive industriali e di mercato». L’impianto normativo è corretto ma purtroppo, nonostante quanto comunemente si lasci credere, ritengo che gli squilibri patrimoniali e finanziari dell’Ilva derivino proprio da problemi industriali e di mercato e che, pertanto, la nuova Spa non possa intervenire nell’Ilva.

Per l’autoconsumo nei prodotti finali destinati alla vendita, l’Ilva nel 2009 produsse 4,5 milioni di tonnellate di acciaio grezzo, meno del 40 per cento della capacità produttiva (11,5 milioni l’anno), ma soprattutto meno dei 10,2 milioni di tonnellate che quell’anno sarebbero state necessarie per l’equilibrio economico della gestione operativa (break-even point). Un centro siderurgico come Taranto è bene sia sfruttato per almeno l’80 per cento, perché il margine di contribuzione (ricavo netto unitario meno costo variabile unitario) è esiguo e i costi fissi (lavoro, ammortamenti) sono elevati. Dal 2009 la produzione è ulteriormente calata. Nel 2013, ultimo dato disponibile dalla relazione commissariale di Enrico Bondi e di Edo Ronchi, la produzione di acciaio grezzo è risultata un 30 per cento inferiore a quella 2012. Le vendite nel 2013 si sono aggirate intorno a 3,5 miliardi di euro, contro i 6 miliardi del 2011. Non si conosce la perdita netta della gestione economica del 2014, non esistono su questo elementi forniti dal nuovo commissario Piero Gnudi, ma è probabile vi sia un’emorragia inarrestabile.

Il ricavo netto unitario in generale dipende dal mercato dei prodotti finiti e non può essere aumentato. Il costo variabile unitario dipende dal minerale e dall’energia e non può essere tagliato. Il vertice aziendale in questi casi non fa altro che tagliare i costi fissi della gestione corrente. E, infatti, l’organico dell’Ilva è sceso da 17.173 unità nel 2007 a 14.790 nel 2011, a 14.523 a fine settembre 2013, chissà a quanto oggi. Ma tutto ciò è ben lungi dal riportare l’impresa nell’area del profitto.

Nel 2007 l’Ilva aveva un indice di indebitamento addirittura inferiore a quanto fosse accettabile (debiti finanziari pari a 1,6 miliardi poco più della metà dei ben 2,9 miliardi del patrimonio netto) ed era finanziariamente equilibrata (4,5 miliardi di finanza affidabile per capitale di rischio e mutui, ben più dei 3,8 miliardi di attivo durevole per immobilizzazioni). L’unica debolezza era una liquidità un po’ scarsa. Perciò, forse, nemmeno allora sarebbe stato lecito ipotizzare un salvataggio per squilibri patrimoniali o finanziari. Oggi invece il dissesto è industriale, di mercato, economico e, solo come conseguente deterioramento, anche patrimoniale e finanziario. Insomma, il nesso causale è l’inverso di quello contemplato dal decreto del governo.

L’impressione è che per evitare l’apertura di una procedura d’infrazione comunitaria per aiuti di Stato, Palazzo Chigi e Cdp abbiano studiato bene la materia sotto il profilo del diritto, ma non si siano avvalsi di economisti industriali, né di impresa. Lo stesso Gnudi, attuale commissario dell’Ilva, è un giurista.

Per quanta sudditanza possa avere verso il governo che lo nominerà, quale management della Spa si prenderà la responsabilità di negare l’evidenza? La vera via d’uscita, alternativa, sarebbe la vendita del ramo d’azienda dell’Ilva sul mercato mondiale. Con una buona gara, acquirenti seri ce ne sarebbero di sicuro. Anche su questo, è d’accordo Piero Gnudi? Forse, invece, il governo pensa che l’acciaio sia strategico e che perciò non debba andare sul mercato? Il rottamatore Renzi e la ministra Guidi, illuminata imprenditrice di formazione liberale, sono anche loro fermi alla vetero e dissipatrice ideologia del “settore strategico”?

@riccardo_gallo

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