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Alla festa milanese dell’Unità Pier Luigi Bersani ha detto che non esiterebbe a sottoscrivere un emendamento che recitasse: “Il Senato è abolito”. La trovo una posizione magnifica e sensazionale. Perché, però, non l’ha assunta un anno fa? Ci saremmo risparmiati un tormentone stucchevole e imbarazzante.

Eppure sarebbe bastato rileggersi quanto sosteneva Pietro Ingrao già a metà degli anni Ottanta, quando denunciava i guasti e i costi per la democrazia italiana del bicameralismo perfetto. Forse una spiegazione c’è. Più passa il tempo, infatti, più è evidente che il minimo comun denominatore della minoranza Pd è costituito dal risentimento personale (leggere l’intervista a Massimo D’Alema sul Corriere della Sera di ieri per credere) che nutre nei confronti del presidente del Consiglio, visto come un alieno sbarcato a Largo del Nazareno per ridurre in schiavitù i terrestri postcomunisti e postdemocristiani.

Facciamo pure finta, tuttavia, che la battaglia dei difensori della “ditta” contro “l’invasore” abbia un suo ubi consistam politico. In fondo, insieme alla renziana vocazione maggioritaria in un sistema tendenzialmente bipartitico (e, va detto, implicitamente presidenzialista), resta in campo la vecchia vocazione ulivista (rispolverata da D’Alema) in un regime pluripartitico e a centralità parlamentare.

Ma, invece di aprire un confronto alla luce del sole su queste due prospettive strategiche, Bersani e soci si sono persi in risibili guerricciole sul tasso di preferenze e di nominati dell’Italicum come sull’elettività dei nuovi senatori (tardivo e ipocrita rimpianto per il Mattarellum a parte: qui un parlamentare intelligente come Roberto Giachetti ha ragione da vendere).

Al di là del meccanismo di voto, comunque, anche chi rifiuta l’idea del Partito della nazione (ma esiste, poi?) non può negare che il Pd è oggi obbligato a slittare verso il centro, ovvero che il suo futuro politico e quello della stessa legislatura sono legati alla capacità di Renzi di riconquistare gli elettori intermedi (area socialmente composita, che comprende anche quei ceti popolari che scelgono da che parte stare in base non alle ideologie, ma alle concrete offerte del mercato politico). Parlo di quegli elettori e di quei ceti che allo scorso voto europeo avevano rilasciato una cambiale in bianco al premier, successivamente ritirata.

Non c’è bisogno di essere Machiavelli per capire che il piano di riduzione delle tasse annunciato dal governo corrisponde esattamente a questo obiettivo. In fondo, si tratta dello scoglio su cui si sono infranti i sogni di gloria di Romano Prodi. Renzi, che pure di pasticci ne combina (la sua riforma del Senato somiglia alle sabbie mobili del barone di Münchhausen), questo l’ha capito. Certi suoi avversari, invece, sembrano ancora affezionati al rassemblement della Cosa rossa. Qualcuno se la ricorda? La sinistra italiana si sta ancora leccando le ferite per quella disastrosa stagione.

Renzi e il barone di Münchhausen

Alla festa milanese dell'Unità Pier Luigi Bersani ha detto che non esiterebbe a sottoscrivere un emendamento che recitasse: "Il Senato è abolito". La trovo una posizione magnifica e sensazionale. Perché, però, non l'ha assunta un anno fa? Ci saremmo risparmiati un tormentone stucchevole e imbarazzante. Eppure sarebbe bastato rileggersi quanto sosteneva Pietro Ingrao già a metà degli anni Ottanta, quando…

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