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Diciamo grazie alla Cancelliera Merkel: vielen Dank. Lo diciamo noi che l’abbiamo criticata (e continueremo a farlo) come sanno i lettori di Formiche.net. Non condividere una politica non vuol dire disconoscere i meriti di un leader e Frau Angela merita il nostro apprezzamento. Basta dare un’occhiata al Bundestag in rivolta contro il sì della Kanzlerin al terzo salvataggio della Grecia per capire che quella scelta per l’euro e la stabilità dell’Unione europea non è stata facile.

Siamo certi che dovrà concedere parecchio allo spirito del popolo e dei suoi rappresentanti: il Volksgeist tedesco oggi è dominato da un interesse nazionale miope perché anche la forte Germania è avvinta inesorabilmente a tutto quel che la circonda, anche alla Grecia e all’Italia. Gli euroscettici la considerano una dannazione, gli eurofili una salvezza, ma la realtà è che nel costruire la moneta unica si è messa in piedi una macchina senza retromarcia; anziché arretrare finisce fuori strada.

La Merkel lo ha capito. Ha dato una mano (anche se rivestita di un guanto di ferro) a Alexis Tsipras nella battaglia con gli intransigenti di Syriza. E ha ammesso apertamente di aver imparato ad apprezzare il primo ministro greco. Ha ragione. Tsipras si è dimostrato un leader che guarda alle esigenze di fondo del suo Paese e non solo alla sua parte politica, un uomo di sinistra che non ha paura di usare una tattica realista e pragmatica. Gli tsiprioti italici storcono il naso e gridano al tradimento, un altro segno che la Merkel è più scaltra di molti suoi critici e avversari.

Pur comprendendo le sue difficoltà e pur apprezzando la sua abilità nel navigare anche con il vento di traverso, non possiamo ringraziarla per quel che avrebbe potuto fare e non ha fatto, dubito dopo la crisi del 2008, nel 2010 e nel 2014. La Cancelliera è lenta a fare manovra. Quando prende una rotta la segue fino all’estremo. Il nuovo passo che Angela Merkel deve fare oggi è guardare alle cifre sulla crescita europea e alla congiuntura tedesca, recarsi davanti al Bundestag e dire chiaramente che non si può andare avanti con zero virgola, tanto più che l’Asia e l’America Latina (il Brasile soprattutto) non rappresentano più lo sbocco certo e abbondante al made in Germany. In ogni occasione gli Stati Uniti hanno cercato di convincere la classe dirigente tedesca che le conviene aumentare la domanda interna, ridimensionare l’attivo della bilancia con l’estero, spingere l’economia domestica. Adesso che la crisi dei debiti sovrani è tamponata, non ci sono più alibi.

Intendiamoci, qualcosa si è fatto. Ma il minimo salariale introdotto per legge non può essere abbastanza. Anche la storica obiezione secondo la quale in condizioni di occupazione piena (o quasi) una politica fiscale espansiva finisce per aumentare l’inflazione non regge in un ambiente economico sostanzialmente deflazionistico come quello attuale. I prezzi al consumo sono ancora ben al di sotto dell’obiettivo della Banca centrale europea (un incremento vicino al due per cento annuo). Insomma, niente più scuse. Questo è quel che deve fare la Germania. E l’Italia, vagone di coda nella tradotta economica europea?

“Ce la faremo”, ha detto Matteo Renzi ieri sera alla Merkel, magari in extremis, come per l’Expo di Milano. Non sappiamo se l’abbia sollecitata a compiere quel passo indispensabile a rilanciare l’economia europea. Possiamo immaginare che la Kanzlerin abbia invitato il capo del governo italiano a non perdersi in chiacchiere. Le cose non vanno bene, è evidente a tutti, la ripresa non si vede, restiamo in piena stagnazione. Dunque, l’Italia deve fare uno sforzo ulteriore altrimenti rischia di intaccare quel po’ di fiducia ritrovata.

Anche Renzi lo sa, ma sta cercando di rosicchiare margini di flessibilità dentro i limiti europei e punta a ottenere qualche sconto da Bruxelles. Anche se ci riuscisse, otterrebbe uno spazio ininfluente, quindi basare tutta la prossima legge di bilancio su questa scommessa è un errore. Il governo non se la può più cavare come l’anno scorso con una finanziaria minimalista. E’ questo il problema di fondo, prima Renzi lo ammette davanti al Parlamento e al Paese, meglio è.

Stefano Cingolani

 

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