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Adesso sappiamo dov’è il nido dei gufi: si trova a Washington nel palazzone del Fondo monetario internazionale. E sappiamo anche chi è il capo dei gufi: si chiama Olivier Blanchard uno dei macroeconomisti più apprezzati al mondo, francese ma di scuola Mit. In questi anni ha abbattuto il totem dell’austerità (le politiche fiscali sono state inutilmente restrittive) e dell’inflazione (troppo poca fa male, meglio che le banche centrali si diano un obiettivo del 4%). Anche se ora è in uscita, ha fatto in tempo a irritare i Renzi boys. “L’Italia è fuori dalla recessione, ma per recuperare il tasso di disoccupazione ante crisi impiegherà vent’anni”, sentenzia l’ultimo rapporto sull’Europa pubblicato ieri. L’Italia non è sola, condivide il pessimo record con il Portogallo, quanto alla Spagna impiegherà dieci anni, ma la sua disoccupazione nel 2008 era quasi il doppio di quella italiana, quindi resterà pur sempre attorno al 15%.

Piccata quanto puntuale è arrivata la replica del Mef (alias Ministero dell’Economia e delle finanze): “La stima è basata su una metodologia che non tiene conto delle riforme strutturali già introdotte”. Dunque, “non servono vent’anni”. E quanti se no? Dieci? Sono sempre tanti, sempre troppi.

Francamente la guerra delle cifre tra Fmi e Mef risulta un po’ stucchevole, così come queste continue precisazioni ogni volta che qualcuno osa non incensare il cammino virtuoso del governo Renzi. Molto meglio sarebbe incassare le critiche soprattutto quando vengono da fonti autorevoli e meditare come trasformare il negativo in positivo.

Non si può gioire perché vengono rialzate le previsioni di crescita allo 0,7% (sic!) senza tener conto che per la prima volta dal dopoguerra a una recessione non fa seguito un rimbalzo del prodotto lordo, ma solo una lenta e incerta risalita. La colpa è che la crisi ha distrutto troppa capacità produttiva? Forse, ma allora gli Fmi boys non hanno tutti i torti.

Meglio farebbe dunque il governo a pensare come mettere in piedi una politica di rilancio dell’occupazione. La riforma del mercato del lavoro è una condizione necessaria, ma non sufficiente; l’altra condizione è una ripresa più forte (là dove c’è come negli Stati Uniti aumenta anche l’occupazione); tuttavia anche questo non basta: bisogna cambiare le aspettative e i comportamenti sia individuali sia collettivi.

C’è la netta sensazione che prevalga una tale depressione psicologica, una tale sfiducia nell’immediato futuro da spingere famiglie e imprese a mettere fieno in cascina. Lo dimostrano nel 2014 la vicenda degli 80 euro da un alto e l’aumento notevole dei depositi bancari a vista dall’altro. A questo si aggiunge il prevalere della guerra di tutti contro tutti che spinge i corpi intermedi a difendere i propri privilegi anche a scapito dell’interesse collettivo. La dimostrazione viene dai comportamenti sindacali prevalenti, dalle sentenze della magistratura a strenua difesa dei “diritti acquisiti”, dal sabotaggio della riforma scolastica annunciato da professori che hanno perso il senso del loro mestiere, dallo sfascio dei servizi pubblici e dallo sciupio dei beni collettivi.

Per la verità i comportamenti peggiori si trovano nel sistema pubblico (burocrazia e magistratura guidano la danza macabra), ma inutile negare che si diffondono a macchia d’olio. E’ chiaro, dunque, che per rimettere in moto il Paese occorre un lavoro di lunga lena. Speriamo non ci vogliano vent’anni, ma poco ci manca. A meno che dalla politica e dalle élite economiche e culturali, da quella che una volta si chiamava la classe dirigente, non arrivi un impulso importante.

Anziché polemizzare in modo querulo, a questo punto il governo dovrebbe volare alto. Perché non pensare a un’ampia iniziativa chiamando a raccolta le istituzioni, le organizzazioni economiche e sociali, i gruppi di interesse, le lobby (perché no?) e naturalmente lanciando un invito ai partiti d’opposizione. Non un gesto ecumenico o di pura buona volontà. No. Renzi dovrebbe presentare riforme di medio-lungo periodo (alcune sono già sul tavolo) più una serie di misure concrete e immediate per accelerare la crescita, sulle quali aprire un vero e proprio confronto nazionale.

Leggi e provvedimenti operativi si fanno in Parlamento, è ovvio, niente concertazione preventiva. Ma le linee guida possono e debbono essere discusse insieme, presentate agli elettori, messe in piazza, dibattute alla tv, sui giornali, nei social media, offrendo agli italiani una stagione di confronto vero su dove portare il Paese. Poi ciascuno faccia il proprio mestiere, anche quello di opporsi, naturalmente, ma dentro un quadro di riferimento comune. E’ questa del resto la vera lezione delle democrazie del nord delle quali tanto si discute (spesso senza conoscerle davvero).

Nella Svezia ambientalista ci si è accapigliati per anni sul ponte tra Copenaghen e Malmo, poi lo si è costruito. La Germania si è divisa sul mercato del lavoro, poi i socialdemocratici lo hanno riformato. In Gran Bretagna i laburisti si lacerano, ma non rimettono in discussione tutto quel che hanno realizzato i conservatori e viceversa.

L’Italia è capace di fare altrettanto? La risposta al Fondo monetario internazionale, in fondo, sta qui, non negli algoritmi della macroeconomia.

Stefano Cingolani

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