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Come il ritorno alle preferenze, così il ripristino del finanziamento pubblico dei partiti non sarebbe popolare. Eppure bisognerebbe avere l’onestà di riconoscere il fallimento delle alternative adottate per farne a meno.

Alle preferenze plurime si preferì con il referendum del 1991 promosso da Mario Segni la preferenza unica, che alla prima occasione in cui fu sperimentata, nelle votazioni del 1992, produsse la campagna elettorale più costosa per i candidati. Che in molti casi, quando non ne disponevano in proprio, o anche quando ne disponevano ma non volevano impiegarle, si procurarono con mezzi illeciti le ingenti risorse necessarie alla concorrenza. Non a caso quelle elezioni incrociarono l’esplosione di Tangentopoli.

Due anni dopo si votò, sulla spinta di un altro referendum promosso da Segni, con un nuovo sistema elettorale noto come Mattarellum, dal nome del suo relatore a Montecitorio, che fu l’attuale presidente della Repubblica. Era un sistema maggioritario per l’assegnazione dei tre quarti dei seggi parlamentari e proporzionale per il rimanente quarto. Per i tre quarti dei seggi assegnabili con il maggioritario gli italiani si trovarono a scegliere il partito più che il candidato, essendo i collegi uninominali. Se il candidato non piaceva, con tanto di nome comunque stampato sulla scheda e quindi ben identificabile, l’elettore aveva solo la possibilità o di votarlo controvoglia, o di non votare per niente, o di votare per un altro partito, o schieramento.

Anche per il rimanente quarto dei seggi assegnabili ancora con il sistema proporzionale gli italiani si trovarono a scegliere il partito più che il candidato. Ogni simbolo infatti disponeva di un listino bloccato di candidati, eleggibili nell’ordine in cui erano stati selezionati dal partito. L’elettore, di nuovo, aveva solo la possibilità o di accettare in blocco le scelte del partito, o di non votare, o di votare un altro partito, magari per dispetto.

Anche se preferibile, come vedremo, a quello che sarebbe venuto dopo, il Mattarellum restrinse le scelte degli elettori, a vantaggio dei partiti e delle rispettive coalizioni. Ma i partiti, insaziabili, non si accontentarono. Al Mattarellum seguì nel 2005, per iniziativa dell’allora maggioranza di centrodestra ma con una opposizione solo apparente del cosiddetto centrosinistra, visti i vantaggi che ne ricavava anch’esso, una legge dal nome meritatissimo di Porcellum. Che diede alle forze politiche il diritto di nominarsi i parlamentari con liste interamente bloccate, in cui i candidati venivano eletti nell’ordine, non certo alfabetico, in cui erano stati elencati.

Se la nuova legge, chiamata Italicum e fortemente voluta da Matteo Renzi, dovesse davvero passare a Montecitorio entro maggio, la prossima Camera sarà composta da deputati nominati dai partiti, corrispondenti a tutti i capilista candidati nei vari collegi, e da deputati eletti con il voto di preferenza solo dal secondo posto in giù. A conti fatti, gli eletti con le preferenze saranno solo fra quelli dei maggiori o del maggiore partito, gli altri risulteranno di nuovo nominati. Se sarà meglio o peggio di prima si potrà vedere davvero solo dopo le elezioni, ma neppure gli esperti più indiscussi si sentono di garantire che la maggioranza dei deputati risulterà composta di eletti veri, e non di nominati. Ma nominati da partiti che nel frattempo, fatta eccezione per il Pd a guida renziana, anch’esso però assai malmesso in periferia, sono diventati più liquidi di prima. Tanto liquidi da portare alle urne sempre meno cittadini, per cui anche i risultati elettorali alla fine sono falsati dall’astensionismo e rappresentano con crescente approssimazione il Paese.

Oltre che liquidi e sempre meno rappresentativi, a detrimento comunque del sistema democratico, i partiti si sono scoperti troppo impoveriti dall’abolizione del finanziamento pubblico. Cui hanno dovuto rinunciare per l’impopolarità procuratasi con l’abuso fattone in passato, peraltro con una legge di autentico raggiro rispetto al referendum abrogativo svoltosi nel 1993. Un raggiro consistito nel chiamare rimborsi i vecchi contributi nazionali, nell’aumentarne progressivamente la consistenza e nel moltiplicarne l’uso a livello locale, con quali e quante nefandezze si è visto in tutte le regioni, dove i politici hanno potuto acquistare di tutto con i soldi pubblici: dai suv alle mutande, dalle vacanze alle feste nuziali dei loro familiari o amici.

Privatisi del finanziamento pubblico per placare la giusta indignazione popolare, partiti e quasi partiti, come sono le fondazioni, riedizioni delle vecchie correnti, hanno fatto ricorso ai soldi di privati, aziende, cooperative e quant’altro, subendone gli inevitabili condizionamenti, e in un modo così poco trasparente, e così maldestramente, da incappare nello scandalo ogni volta che ad un magistrato capiti di ficcarvi il naso, di proposito o  a caso.

Viene a questo punto spontaneo chiedersi se non sia meglio tornare al finanziamento pubblico, certamente non condizionante come quelli consistenti dei privati, compensandolo questa volta con un vero e stringente sistema di controllo, non quello fittizio del passato.

Francesco Damato

Idee (controcorrente) su preferenze e finanziamento pubblico dei partiti

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