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Quello che Matteo Renzi ha vinto con i 120 sì ottenuti dalla direzione del Pd, in una votazione disertata per polemica dalle minoranze, è solo il primo dei tre tempi di cui è composta la partita speciale che egli ha deciso di giocare per accelerare alla Camera i tempi di approvazione della riforma elettorale. Che era originariamente prevista dopo le elezioni regionali di fine maggio ma che il presidente del Consiglio ha voluto anticipare con una iniziativa di cui solo alla fine si potrà giudicare il vero carattere.

La mossa di Renzi potrà risultare indovinata, anche per l’effetto che potrebbe procurargli negli appuntamenti regionali con le urne, se il presidente del Consiglio riuscirà ad arrivarvi con un successo parlamentare sulla nuova legge elettorale. Potrà invece rivelarsi quanto meno avventata se Renzi dovesse inciampare in un clamoroso infortunio. Risulterebbero compromesse seriamente in quest’ultimo caso quelle che lo stesso premier ha voluto chiamare “dignità e qualità del governo”.

Il secondo tempo della partita si giocherà dopo Pasqua nel gruppo del Pd di Montecitorio, dove le minoranze sono più forti, o meno deboli, che nella direzione del partito. Di questo passaggio Renzi ha peraltro parlato con una sufficienza o insofferenza che ha probabilmente deluso e preoccupato anche qualcuno dei suoi amici, di sicuro il capogruppo Roberto Speranza, che pure è sempre stato nella minoranza dell’ex segretario Pier Luigi Bersani il più disposto ad aiutare nei momenti di difficoltà il presidente del Consiglio.

“Credo – ha detto testualmente il premier e segretario – che potrebbe essere opportuno che il gruppo della Camera abbia la possibilità di riunirsi”. Solo la possibilità? Non il diritto? Solo l’opportunità? Non il dovere? Domande alle quali il capogruppo ha risposto affrettandosi ad esternare le sue preoccupazioni per la piega presa dagli avvenimenti e adombrando la sua rinuncia all’incarico se ciò potesse servire a favorire un compromesso, che Renzi però ha mostrato di non volere.

Il terzo tempo della partita si giocherà infine nell’aula di Montecitorio, dove la legge elettorale approderà il 27 aprile e sarà sottoposta in tempi brevi alla giostra degli emendamenti: le proposte di modifica delle stesse minoranze del Pd o delle opposizioni al testo della riforma approvato dal Senato, e considerato da Renzi intangibile. I punti più controversi sono notoriamente quelli sui capilista bloccati e sul premio di maggioranza alla lista e non alla coalizione vincente, anche in caso di ballottaggio.

Nelle votazioni a scrutinio segreto consentite dal regolamento della Camera il presidente del Consiglio ha visto non l’espressione della libertà e autonomia dei deputati, che sono pure garantite dall’articolo 67 della Costituzione, secondo il quale “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, ma trappole da “ricatti”.

A questa rappresentazione del voto segreto in un’aula parlamentare ha reagito con particolare durezza davanti alla direzione il deputato bersaniano Alfredo D’Attorre invitando il presidente del Consiglio ad una visione realistica del regolamento della Camera. E diffidandolo da forzature, a dir poco, come il ricorso alla cosiddetta questione di fiducia, che comporta lo scrutinio palese. E che la ministra delle riforme ultrarenziana Maria Elena Boschi, nonostante le proteste e diffide levatesi fuori e dentro il partito di fronte alle prime voci sui propositi del governo in questo senso, non ha per niente escluso già prima che si riunisse la direzione, limitandosi a definire la cosa “prematura”.

Il fatto è che più Renzi ha alzato la posta, più il gioco si è fatto pesante e rischioso, per tutti, anche per lui.

La tosta partita di Renzi

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