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Ha senso, ad oggi, parlare ancora di “primavere arabe”? Un evento tellurico di così grande portata, sembra ormai sbiadito, scolorito, sotto i colpi dell’avanzata del fondamentalismo radicale islamico, che alimenta lo spettro del terrorismo nelle capitali europee, la disgregazione totale dello Stato almeno formalmente “laico” e della società in Libia e in Irak, l’attacco alle comunità cristiane d’Africa e dell’Asia.

Su questa tensione, tra ciò che di buono possono averci lasciato le rivolte d’Egitto, Tunisia, Libia e degli altri Paesi coinvolti dall’onda dei movimenti del 2011 e quello che è stato un vero effetto deflagrante in termini di sicurezza e stabilità regionale dovuto alla caduta dei regimi autocratici, sembra scorrere il filo narrativo del libro di Gabriele Moccia, Speranze e paure nel futuro delle rivolte arabe (Il Sirente edizioni, 2014).

Dalla cronaca dei fatti che hanno portato al crollo di sistemi politici e clientelari considerati di “ferro”, come quelli di Ben Ali in Tunisia, Gheddafi in Libia, Mubarak in Egitto, s’innestano le interviste con testimoni, studiosi ed esperti che parlano, da diverse angolazioni,di temi centrali per comprendere quanto sta accadendo, a partire dal dicembre 2010, nell’area del Mediterraneo, dove Europa, Africa e vicino Oriente si affacciano insieme. Il riverbero geopolitico di tali eventi legato a problemi di sicurezza e instabilità in tutta l’area, le trasformazioni sociali e culturali che vi sono implicate, i condizionamenti religiosi sulle riforme costituzionali, sono alcuni dei temi del libro.

L’incognita di un fondamentalismo che si fa Stato, cede il passo alla realtà geopolitica – descritta da Moccia – del rischio concreto di una possibile definitiva saldatura del cosiddetto triangolo della jihad: l’unione strategica ed operativa tra le forze  fondamentaliste della Mezzaluna fertile e del Corno d’Africa ad Est con l’esplosiva capacità militare di Boko Haram in Nigeria (anche grazie alla permeabilità della fascia saheliana) ad Ovest e, infine, punta del triangolo, a nord la presenza massiccia di Al Qaeda nel Maghreb e di Isis. Il libro poi cerca di non trascurare la componente economica, uno dei veri possibili driver dimenticati dall’Occidente per la rinascita di un Mediterraneo pacifico e prospero, un’area di libero scambio, un mercato unico nei settori energetici, dei trasporti e delle telecomunicazioni.

Nel saggio si ricorda come storiche zone d’interesse europeo cedono sempre di più il passo all’espansione economica del gigante turco, che, ad esempio, investe in infrastrutture essenziali in Tunisia, applicando a pieno la dottrina della profondità strategica, nata dalla mente geniale dell’ex ministro degli esteri di Ankara – ora primo ministro – Ahmet Davutoğlu. Una prospettiva con la quale anche il nostro Paese è chiamato a fare i conti, Libia in primis.

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