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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class Editori e dell’autore, pubblichiamo la terza e ultima puntata dell’inchiesta di Antonio Satta uscita sul settimanale Milano Finanza diretto da Pierluigi Magnaschi

Lo svizzero Bruhart e l’ispano-americano Zarate, che ha lavorato nello staff del presidente George W. Bush nella lotta al terrorismo finanziario, scovando investimenti di Saddam Hussein per milioni in mezzo mondo, sono entrambi parte di questa componente anglofona, per non definirla cordata, che pesa sempre di più e si sviluppa intorno a Pell e la cui forza si è vista durante la partita per lo Ior.

Il Papa all’inizio aveva pensato di chiudere la banca, così screditata, ma poi è prevalsa l’idea di bonificarla internamente e ridimensionarla a poco più di un semplice sportello interno. Nel frattempo, come al solito, intorno allo Ior è ripartita un’altra delle solite partite di potere. E come sempre dossier giornalistici e indagini giudiziarie hanno scandito le fasi dello scontro.

Non è una novità. Il regno di Marcinkus si chiuse nel 1989 ben oltre il crack Ambrosiano, l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, il finto suicidio di Roberto Calvi e l’avvelenamento di Michele Sindona. A essi seguirono poi i vent’anni di gestione di Angelo Caloia, il principe della finanza cattolica che doveva far dimenticare ogni scandalo. Le vicende che hanno recentemente colpito il finanziere gettano però una luce ben diversa su quell’esperienza. Su Caloia, infatti, è finito qualche schizzo, penalmente irrilevante, dell’inchiesta Expo 2015, ma soprattutto, con inusuale procedura di trasparenza, agli inizi di dicembre il Vaticano ha comunicato che il Promotore di Giustizia, Gian Piero Milano, ha messo sotto inchiesta Caloia e l’ex direttore generale dello Ior, Lelio Scaletti, per peculato riguardo alcune operazioni immobiliari avvenute tra il 2001 e il 2008. Sotto la lente è finita la cessione di 29 immobili dello Ior a Roma e a Milano (praticamente l’intero patrimonio immobiliare della banca) e sono stati messi sotto sequestro i conti personali che Caloia e Scaletti hanno mantenuto nello Ior e su cui sono stati trovati 16 milioni di euro (l’ex presidente si è detto vittima di operazioni non promosse da lui, ideate da altri, e che da lui sarebbero state solo avallate nel suo ruolo al vertice della banca).

Indagini a parte, Caloia aveva perso il suo incarico anche per effetto della pubblicazione del libro Vaticano Spa, scritto da Gianluigi Nuzzi sulla base dell’archivio segreto di uno scomparso monsignore di Curia, Edoardo Dardozzi, che dimostrò come anche nei vent’anni della sua presidenza avesse operato uno Ior parallelo, con un traffico continuo di denaro sporco, documenti cifrati, tangenti e rame, tante trame. Nel 2009 Benedetto XVI (alla fine anche lui travolto dalla pubblicazione di carte segrete trafugate dal suo stesso appartamento e recapitate a Nuzzi) decise quindi di fare tabula rasa nominando presidente della banca Gotti Tedeschi, indicatogli dal segretario di Stato Bertone.

Gotti Tedeschi, all’epoca numero uno di Banco Santander in Italia, si stava già occupando della gestione del Governatorato, in rosso per 15 milioni di euro e aveva contribuito anche alla stesura dell’enciclica Caritas in veritate. Un anno dopo, però, i rapporti tra Gotti Tedeschi e Bertone erano già diventati freddissimi. Tutta l’esperienza allo Ior si è dimostrata un Vietnam per il banchiere, che è stato pure l’ispiratore della legge antiriciclaggio del 2010, quella che doveva far rientrare il Vaticano all’interno delle regole internazionali anti evasione e riciclaggio. Norme in seguito annacquate, mentre sempre nel 2010 è esploso un nuovo scandalo, con il sequestro presso la Cassa di Credito Artigiano (ora Credito Valtellinese) di 23 milioni dello Ior per violazione della normativa antiriciclaggio, primo step di una serie di misure che ha portato successivamente al blocco di 130 milioni di euro e a un pressing durissimo della Banca d’Italia sull’istituto vaticano, solo ora in via di superamento. Ebbene, proprio da quel sequestro è partita la vicenda che ha portato nel 2012 al defenestramento di Gotti Tedeschi, con una procedura umiliante.

L’intero board, su input di Bertone, ha sfiduciato il banchiere sulla base di nove accuse, la prima delle quali era la sua «incapacità di portare avanti i doveri di base del presidente», ma pesava pure la «mancanza di prudenza e precisione nei confronti della politica dell’istituto», l’incapacità «di fornire spiegazioni sulla diffusione dei documenti in possesso del presidente» e la diffusione «di notizie imprecise sull’istituto». Quest’anno, però, i magistrati che hanno condotto l’inchiesta causata dal primo blocco dei 23 milioni (solo ora rientrati nella disponibilità dello Ior), hanno archiviato la posizione di Gotti Tedeschi, considerandolo del tutto estraneo all’operazione, eseguita dall’allora direttore dello Ior, Paolo Cipriani e dal suo vice Massimo Tulli, al di fuori e contro le policy introdotte dal presidente. Non solo: nel dispositivo di archiviazione i magistrati hanno sottolineato pure il «carattere tutt’altro che episodico» dell’operazione eseguita da Cipriani e Tulli, che sarebbe «solo un esempio di ben più ampia realtà».

Cipriani e Tulli sono rimasti i deus ex machina dello Ior, con il beneplacito di Bertone, pure sotto la gestione di von Freyberg, voluto dall’ex segretario di Stato durante le ultime settimane del pontificato di Benedetto XVI. Per la verità, pochi mesi dopo l’elezione al Soglio di Pietro, Francesco aveva proceduto a inviare allo Ior un suo uomo di fiducia, nominando come prelato, figura chiave nella banca, una sorte di rappresentante permanente dell’azionista, monsignor Battista Ricca, che però venne immediatamente impiombato dalla diffusione di imbarazzanti dossier su vicende del passato a sfondo omosessuale. Solo un anno e mezzo fa, dopo ulteriori bordate di fango arrivate sulla Torre dello Ior e su esplicita sollecitazione di Bergoglio, Cipriani e Tulli hanno dato le dimissioni «nell’interesse dell’istituto e della stessa Santa Sede». Bertone, del resto, era ormai in disgrazia e stava per perdere l’incarico, mentre Francesco aveva già avviato la sua riforma. La palla è passata in mano a Pell, che ha completato in luglio la rivoluzione, sostituendo anche von Freyberg con De Franssu, mentre come direttore generale Ior è stato scelto Rolando Marranci, una carriera passata in Bnl (dove è stato anche cfo della filiale di Londra e responsabile dell’Ufficio Controlli Contabili per la direzione generale e le filiali italiane). Marranci, per la verità, stava già revisionando i conti dello Ior per incarico di Promontory, l’advisor scelto dal Vaticano, un colosso americano del ramo che sta rivoltando come un calzino la contabilità e l’organizzazione attraverso uno staff di professionisti insediati a tempo pieno per il non modico costo di 8,3 milioni all’anno (spesa per il 2013).

Risultato: dopo lo screening approfondito sui 18.900 conti correnti, quelli non in linea (3.300) sono stati chiusi, mentre oltre 2 mila sono stati sospesi, in attesa dei dati richiesti. Le sofferenze, poi, sono state stralciate (tra queste i 15 milioni a fondo perduto concessi alla Lux Vide di Ettore Bernabei e il prestito infruttifero da 12 milioni alla diocesi di Terni). I numeri finali ne hanno ovviamente risentito e, complice anche il crollo del prezzo dell’oro, gli utili sono scesi dagli 86 milioni del 2012 a soli 2,9 milioni, il che ha permesso comunque di staccare un dividendo all’azionista unico, ossia il Papa, di 54 milioni. Ma anche in futuro i numeri sono destinati a rimanere contenuti, visto che lo Ior diventerà una banca retail per i conti dei cittadini del Vaticano e dei dipendenti. Le operazioni finanziarie saranno gestite dall’Apsa e dalla nuova sgr, la Vam, Vatican Asset Management, che partirà sotto la gestione Ior per diventare poi indipendente.

Anche il Consiglio di sovrintendenza è stato totalmente rinnovato. A casa quelli che avevano liquidato Gotti Tedeschi e sostenuto i manager interni (erano l’americano Carl Albert Anderson, il tedesco Ronaldo Hermann Schmitz, lo spagnolo Manuel Soto Serrano e l’italiano Antonio Maria Marocco), è entrata in campo una squadra espressione dei nuovi equilibri. Oltre a De Franssu e a monsignor Xuereb, in qualità di segretario non votante, sono entrati Clemens Boersig (Germania), Mary Ann Glendon (Usa) e Sir Michael Hintze (Regno Unito), ai quali si sono aggiunti in un secondo tempo il cileno Mauricio Larrain e l’italiano Carlo Salvatori. Quest’ultimo ha un’esperienza al vertice dei massimi istituti di credito come nessun altro. Dal 2010 è presidente della banca d’investimento Lazard Italia e di Allianz Italia, dopo essere stato presidente di Unipol e Unicredit, vicepresidente di Mediobanca e amministratore delegato di Banca Intesa, frutto della fusione tra Cariplo e Banco Ambrosiano Veneto, e prima ancora direttore centrale di Bnl. Un italiano solo, insomma, ma di peso massimo. Così nella torre di Niccolo V sembra cambiato proprio tutto. Se è solo un’impressione lo si capirà presto. Perché alla fine tutto devo ripassare per Francesco, e per lui «San Pietro non aveva il conto in banca».

Antonio Satta è vicedirettore di MF/MilanoFinanza

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