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Non è proprio usuale che il governatore della Banca Centrale di uno dei Paesi dell’eurozona convochi tre dei maggiori quotidiani europei per manifestare la sua netta contrarietà al programma di acquisti di titoli di Stato da parte della Banca Centrale Europea proposto dal Presidente della BCE, Mario Draghi. È quello che ha fatto Jens Weidmann, il Presidente della Bundesbank, nell’intervista su Repubblica, illustrando, con un linguaggio molto diretto,  il proprio dissenso.

Come si spiega questa iniziativa? È noto che nella riunione del Consiglio direttivo della Bce della scorsa settimana Weidmann ed alcuni altri membri – probabilmente 7 su 24 – avevano votato contro le proposte di Draghi. Ciò che è  significativo è che ora il presidente della Bundesbank riproponga la questione, in pubblico e in termini così perentori.

A una lettura superficiale, l’intervista potrebbe apparire come una reazione stizzita alla determinazione con la quale Draghi porta avanti l’idea di un intervento della BCE sui mercati dei titoli di Stato. In realtà non può essere questa la ragione dell’intervento. Che senso avrebbe uscire in contemporanea su alcuni giornali europei per sottolineare di essere stati messi  in minoranza nel Consiglio della BCE? Se si dà una clamorosa intervista è perché non si considera chiusa la questione e si vuol mettere in guardia Draghi e, con lui, i governi europei dal sottovalutare la portata effettiva del contrasto.

L’obiettivo minimo di Weidmann può essere quello di indurre il Presidente della BCE a muoversi con prudenza, posticipando l’inizio dell’operazione e limitandone la misura. Ma è molto probabile che ci sia qualcosa di più. Il destinatario del messaggio di Weidmann potrebbe essere il Governo tedesco che non può non essere sensibile all’umiliazione subìta dalla sua banca centrale in nome delle istanze europee. È infine possibile, anche, che la Bundesbank voglia risvegliare l’attenzione della Corte Suprema di Karlsruhe sull’implicito trasferimento di sovranità che vi sarebbe nel caso di un’operazione come quella immaginata da Draghi.

Quale che sia il senso ultimo della mossa di Weidmann, essa significa trasformare la discussione interna alla BCE in uno scontro politico potenzialmente esplosivo. C’è in essa, in primo luogo, una sfida a Draghi che in questi mesi ha avuto il coraggio di porre sul tavolo i problemi economici veri dell’Europa. Significa anche aprire un contenzioso con tutti i governi europei, compreso il Governo italiano, che hanno chiesto che l’Europa si faccia concretamente  carico della ripresa economica.

L’intervista di Weidmann espone una visione della moneta europea che è brutale nella sua chiarezza. Alla domanda se l’esperimento dell’euro possa fallire, la risposta è che vi sono due modi fra loro profondamente diversi di assicurare la solidità dell’euro. “La prima – dice Weidmann – è andare verso un’unione fiscale con gli Stati dell’eurozona che delegano parte dei loro diritti sovrani di bilancio a livello europeo… ma alla nascita dell’euro, tale rinuncia alla sovranità non era maggioritaria”. E aggiunge a scanso di equivoci: “Temo che anche oggi l’idea non sia più popolare di allora”.

Se non si va verso l’unione politica, vi è un altro modo – per il Presidente della Bundesbank – di assicurare il buon funzionamento della moneta unica ed è che non si prevedano e non siano ammessi trasferimenti di risorse da un paese all’altro. “Gli Stati dell’eurozona – dice Weidmann – sono responsabili delle loro politiche fiscali… Per questo le regole del patto di stabilità e crescita sono state rese più severe…”. Autorizzare la BCE a comprare titoli di Stato di paesi che non sono in grado di assicurare il proprio equilibrio finanziario significa creare “un incentivo a indebitarsi  di più scaricando le conseguenze sugli altri”.

Questa risposta del Presidente della Bundesbank conferma che il Trattato di Maastricht è basato su un equivoco che a suo tempo non venne chiarito. Sarebbe stato necessario, prima di cominciare il lungo cammino della moneta unica, accertare quale tipo di impegni gli Stati europei erano disposti ad assumere per realizzare il progetto. Erano pronti a mettere in essere un meccanismo basato sulla solidarietà reciproca, oppure creavano la moneta unica sul presupposto che nessuno avrebbe chiesto il sostegno da parte degli altri? Bisognava decidere quale filosofia di fondo dovesse presiedere alla creazione della moneta unica europea. Ma questo punto non fu chiarito.

Quelli che pensavano che la moneta comune richiedesse un’unione politica si affidarono alla speranza che il fatto compiuto dell’introduzione dell’euro avrebbe con il tempo obbligato l’Europa a completare il cammino verso una piena unione politica. Gli altri, fra cui preminente la Bundesbank, convinti che non vi fossero le condizioni per una vera unione politica, si sforzarono di scrivere nel Trattato delle regole che non creassero  implicitamente un vincolo politico. Ciascuno pensava che il tempo avrebbe portato alle scelte che non si aveva la forza di fare in quel momento. Non è stato così ed oggi i problemi ignorati nel negoziato di Maastricht emergono in tutta la loro gravità.

Può reggere la moneta unica in presenza di un contrasto di fondo così forte, mentre una gravissima situazione economica richiede di prendere misure atte a far ripartire l’economia europea? Se sono divisi fra loro i governatori delle banche centrali e sono altrettanto divisi i Governi dei principali paesi dell’eurozona, come può emergere una risposta politica europea all’altezza dei problemi? La presa di posizione della Bundesbank attraverso il suo Presidente, al di là dei suoi specifici contenuti, pone sul tavolo europeo questioni di fondo che finora sono state colpevolmente sottovalutate. Solo così si possono ricostruire I valori fondanti dell’Europa.

(ampi estratti di un’analisi pubblicata sul Mattino)

Giorgio La Malfa

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