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Pur in tempo di crisi e di disoccupazione il nostro mercato del lavoro mostra una sua vitalità. In Lombardia dal 2009 fino al 2012 gli avviamenti sono sempre stati superiori a 1.720.000 mila unità mentre le cessazioni hanno raggiunto il picco di 1.905.000 nel 2011. Nel secondo trimestre 2013 a fronte di 413.127 assunzioni hanno corrisposto 443.418 cessazioni con un saldo negativo pari a 30.291 unità. Ma la tendenza in atto è quella di trovare alternative al contratto a tempo indeterminato.

Oggi i datori di lavoro privilegiano i contratti a termine, soprattutto dopo i vincoli introdotti dalla “legge Fornero” nel giugno 2012 per i contratti di collaborazione professionale. Fermo restando che nei casi di discriminazione o di rappresaglia il licenziamento è comunque nullo per qualunque tipo di impresa, con l’articolo 18 un’assunzione a tempo determinato comporta minori rischi per l’impresa perché in caso di cessazione del rapporto individuale gli oneri sono ragionevolmente prevedibili.

L’articolo 18 paradossalmente accresce la precarietà perché ostacola la diffusione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato che dal 2009 ad oggi in provincia di Milano rappresentano in media solo il 17% del totale degli avviamenti e interessano in misura crescente le imprese del terziario non qualificato di vita media non superiore ai 24 mesi. Si può ridurre realisticamente il “tasso di precarietà” anche in un contesto difficile come quello attuale? Per la verità già nel 1984 il CNEL, partendo da contraddizioni e incongruenze (sin dall’origine l’articolo 18 si applicava solo ad una parte dei lavoratori) riscontrate nella legislazione del lavoro sui licenziamenti individuali si era proposto di offrire qualche soluzione partendo dalla considerazione che una disciplina restrittiva dei licenziamenti, oltre un certo limite, conferiva consistenza normativa alla concezione del posto di lavoro come oggetto di un diritto di appartenenza del lavoratore. Secondo il CNEL tuttavia “è probabile che la politica di tutela del posto di lavoro come tale, indipendentemente dalle esigenze organizzative e di mercato dell’impresa, sia destinata ad essere sostituita da una politica più elastica e globale di tutela dell’occupazione, coordinata con una politica di mobilità del lavoro”.

La soluzione offerta è molto chiara: “l’obbligo incondizionato di reintegrazione nel posto di lavoro dovrebbe essere limitata ai casi di licenziamento radicalmente nullo per vizi di forma oppure per illiceità del motivo (discriminatorio, a causa di matrimonio o per ritorsione). Negli altri casi l’accertamento della mancanza di giustificato motivo o di giusta causa non dovrebbe comportare l’ordine di reintegrazione, bensì un dispositivo di condanna alternativa che lasci al datore di lavoro la scelta tra la riassunzione del lavoratore entro un termine molto breve oppure il pagamento di una penale a titolo di risarcimento del danno” per dissuadere le imprese a licenziare se non laddove fosse incompatibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Queste conclusioni, che facevano parte di un documento più vasto in ordine alla revisione della legislazione sul rapporto di lavoro, furono approvate il 4 giugno 1985 con il voto contrario della sola Confindustria che paradossalmente motivò il dissenso proprio sul tema dei licenziamenti. I capi delegazione di Cgil, Cisl e Uil all’Assemblea CNEL erano Luciano Lama, Franco Marini e Giorgio Benvenuto. Il CNEL si è recentemente avviato alla scomparsa senza grandi rimpianti. Lasciamogli almeno l’onore delle armi per le sue intuizioni su un tema così lacerante come l’articolo 18.

Si dice che per uscire da sterili contrapposizioni ideologiche sia necessaria una nuova cultura del lavoro, una progettualità di maggior respiro in una dimensione europea che faccia tesoro delle esperienze positive di altri grandi paesi. E’ una buona idea, adesso mettiamola in pratica.

Walter Galbusera
Presidente Fondazione Anna Kuliscioff

sindacati

Quando Cgil, Cisl e Uil dicevano sì alla modifica dell’articolo 18

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