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La Draghinomics è arrivata anche al Parlamento europeo, nutrita di accenti pessimistici sulla congiuntura economica. Del resto, i Paesi dell’euro stanno cadendo nella terza recessione dopo quella del 2008-2009 e quella del 2012.

Il presidente della Bce ha ripetuto per ben sei volte la parola riforme strutturali, ma attenzione a non fare il solito giochetto di chi strattona la giacca sartoriale per coprire le proprie magagne. Perché la dottrina Draghi è basata su tre pilastri: una politica monetaria espansiva; una politica fiscale fatta di aggiustamento dei conti pubblici per chi li ha in disordine e di sostegno alla domanda per chi invece ha raggiunto il pareggio; più le riforme a cominciare dal mercato del lavoro, ma non solo. Si può anche dire che il trittico non funziona, ma non si può smontarlo a piacimento.

Dunque, per prendere sul serio la Draghinomics bisogna sfatare alcuni luoghi comuni:

1) La ripresa passa per le riforme strutturali. Se vogliamo dire che “passa”, ebbene è certamente vero, ma è altrettanto certo che non “parte” da lì. Le riforme sono essenziali per rendere lo sviluppo solido e sostenibile, ma producono effetti benefici dopo almeno tre anni secondo gli studi del Fondo monetario internazionale.

2) Mercato del lavoro, sistema giudiziario, Stato efficiente, leggi favorevoli al business sono le leve della crescita. Può darsi, ma allora come la mettiamo con il Giappone dove si verificano tutte queste condizioni eppure il Paese ristagna da vent’anni?

3) I Paesi che hanno compiuto aggiustamenti più radicali e dolorosi oggi vanno meglio degli altri, soprattutto la Spagna (l’Irlanda non è comparabile perché troppo piccolo e diverso come struttura economica). Qui occorre mettere a confronto alcune cifre a costo di essere noiosi.

La Spagna cresce dell’un per cento quest’anno, mentre l’Italia è in recessione. I due Paesi hanno perso nell’ultimo anno ciascuno il 5% di prodotto potenziale (cioè la differenza tra il pil effettivo e quello possibile con il pieno impiego dei fattori) e nessuno dei due ha recuperato il livello esistente prima della crisi.

Il bilancio pubblico spagnolo era in pareggio nel periodo 2004-2008, è crollato a -11% nel 2009, ora fa registrare un deficit del 5,6% mentre l’anno prossimo salirà a oltre il 6. L’Italia, lo ricordiamo, era a -3 e oggi è a -2,6 dopo un picco di -5,5% nel 2009; dal 2012 è tornata nei ranghi. Anche dal lato del debito le cose sono andate molto peggio in Spagna. Infatti, prima della crisi aveva un debito pari al 41% del pil, mentre oggi è a 100 e l’anno prossimo arriva a 103, con un peggioramento di oltre 60 punti percentuali. L’Italia parte da 105 e arriva a 133, dunque “appena” 28 punti. In sostanza, Roma ha seguito una politica fiscale tendenzialmente restrittiva, Madrid una fortemente espansiva.

La Spagna ora sta rimbalzando mentre l’Italia è piatta, incollata al pavimento. Ciò è conseguenza della svalutazione salariale, perché le retribuzioni in Spagna si sono ridotte e così il costo unitario del lavoro (sempre segno meno dal 2010 con una punta di -4 nel 2012) mentre in Italia no. La disoccupazione spagnola è al 25%, aumentata di sedici punti rispetto al periodo pre-crisi (prima del 2008) mentre quella italiana è al 12,8 (+5,7%). Questo esercito industriale di riserva ha contribuito a schiacciare salari e stipendi. Nella distribuzione del valore aggiunto, ciò ha fatto salire la quota del profitto e ha rimesso in moto gli investimenti, insomma ha dato un giro di manovella alla macchina del capitale.

Ma quanto ha inciso il deficit spending? La spesa sociale ha certamente ammortizzato il peso della crisi. La Ue ha consentito l’eccezione spagnola per intercessione di Berlino, il secolare alleato, e perché Madrid ha chiesto aiuto per salvare le proprie banche (37 miliardi di euro dal fondo salva-stati del quale l’Italia è terzo contribuente). La Commissione ha agito bene? No se si ha il culto delle regole, sì per quel senso di compassione umana che supera sempre la ragione economica; del resto Bruxelles non può certo diventare l’unione degli affamatori dei popoli. Ma questo non c’entra nulla con i vizi e le virtù della politica economica. Sarebbe onesto riconoscerlo.

4) I conti in ordine, dunque, favoriscono la crescita, ma non la generano. Sono semmai la condizione per usare il bilancio dello Stato come stimolo alla congiuntura e come strumento di distribuzione dei redditi.

5) Per ridurre il debito, davvero l’unica via è un avanzo nel bilancio primario (al netto degli interessi), come recita il Fiscal compact? Solo se è accompagnato da una crescita del prodotto lordo costante e sufficientemente elevata. Inoltre, una riduzione generalizzata dei prezzi (la deflazione) è in grado di annullare gli effetti “risanatori” di una politica fiscale rigorosa.

6) La Banca centrale europea ha stampato troppa moneta? Il bilancio della Bce ha toccato il picco di duemila miliardi di euro nel 2012, poi è sceso del 50%; quello della Federal Reserve è arrivato a 4.400 miliardi di dollari e continua a crescere. C’è un limite alla politica monetaria e lo ha dimostrato il fallimento della prima tranche di TLTRO. Tuttavia il passo falso dipende dal fatto che i prestiti sono ritagliati sulle esigenze del mondo bancario; l’Eurotower resta la banca delle banche, mentre dovrebbe diventare la banca dell’intero sistema, acquistando sul mercato titoli privati e pubblici.

Conclusione: le politiche della Ue non hanno funzionato. Ripeterle con una sorta di reazione pavloviana sarebbe colpevole, gli americani hanno ragione da vendere. Oggi ci vuole un intervento coordinato di politica economica muovendo in modo sincronizzato le tre leve indicate da Draghi (moneta, fisco e riforme). Berlino non ci sta e va per conto suo? A questo punto è la Germania che va sanzionata. Se questa è una Unione e se alla guida ci sono uomini, non solo pupazzi.

Stefano Cingolani

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