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Grazie all’autorizzazione del gruppo Class editori pubblichiamo l’analisi di Alberto Pasolini Zanelli apparsa su Italia Oggi, il quotidiano diretto da Pierluigi Magnaschi.

Per riprendere un verbo caro al presidente del consiglio italiano, il re di Spagna si è rottamato da solo. Facendo ricorso all’età avanzata e alla declinante salute, Juan Carlos è riuscito ad aggirare i motivi veri, personali ma anche politici, della sua decisione. Troppo delicati i primi, politicamente pericolosi i secondi.

GLI ESEMPI EUROPEI

Egli ha soprattutto evitato di menzionare quell’elefante della Botswana che ha causato la sua caduta, anzi due: una fisica nella savana, una psicologica negli umori dei sudditi. Egli ha preferito, o così gli hanno saggiamente consigliato, di iscrivere il suo caso in una recente piccola ondata di discese anticipate da dei troni europei. L’anno scorso, di questi giorni, se ne era andata la regina Beatrice d’Olanda dopo avere regnato 33 anni. Poco dopo l’aveva seguita Alberto II del Belgio. E pare che Elisabetta II d’Inghilterra, a 88 anni, abbia cominciato a trasferire al principe ereditario Carlo alcuni dei «doveri del trono».

IL CASO SPAGNOLO

In Spagna, però, le cose non sono andate esattamente così. L’abdicazione di Juan Carlos, che dovrebbe avvenire entro il mese, non sarà di routine, come era inevitabile in un Paese in cui la successione monarchica, per quanto abbia radici antichissime, è stata più volte interrotta da motivi e da passioni politiche. Accadde negli anni Trenta che un re di Spagna lasciasse il trono in conseguenza dei risultati provvisori delle elezioni amministrative che sembravano dare la vittoria ai partiti repubblicani, precipitando così tensioni e scontri frontali che dovevano sfociare nella guerra civile e nella dittatura di Franco.

Nulla di paragonabile può delinearsi in Spagna questa volta, sebbene anche nel 2014 ci sia di mezzo un’elezione, quella per il Parlamento europeo, in cui partiti non dichiaratamente repubblicani ma comunque fuori dal sistema hanno strappato milioni di suffragi a quelli dell’establishment conservatore e socialdemocratico.

I MOTIVI DELL’ABDICAZIONE

I motivi dell’abdicazione sono però altri, strettamente personali o almeno riguardanti la casa reale e la dinastia. A cominciare da un safari in una remota landa africana, riservata prima di diventare pubblica a causa di un incidente che acciaccò Juan Carlos e che rivelò, tra l’altro, che era assente la regina Sofia ma con un’altra presenza femminile, mentre altri riflettori inquadravano la figlia principessa Cristina e il genero, Urdangarin Duca di Palma, alle prese con distrazioni per diversi milioni di euro, fornendo all’opposizione l’occasione per chiedere investigazioni tipo Mani pulite perfino su un conto in una banca svizzera del padre di Juan Carlos quando era esule.

I TEMPI ANDATI

Il nervosismo si era andato manifestando, gradualmente, in forme singolari: per esempio quando la regina Sofia, di nulla accusata o sospettata, fu sonoramente fischiata al Teatro Real di Madrid durante un concerto di musica classica. Quanto a Juan Carlos, egli era già stato radiato da un club ecologista e animalista, apparentemente come gesto di solidarietà verso quel povero elefante del Botswana. Si allontanavano nelle memorie i tempi della gloria di questo monarca, le sue prove difficili, le sue scelte illuminate e coraggiose. Juan Carlos era stato «allevato» per il trono da Franco come unica soluzione al problema della successione. Il dittatore spagnolo sapeva che non si sarebbe mai dimesso, ma sapeva anche che, prima o poi, gli sarebbe toccato morire e seppe pensare al futuro e pensare bene.

UNA GUIDA ESEMPLARE

Quando la ghigliottina della morte cadde sul suo collo, tutto era pronto a una successione ordinata, esemplare. Uscito dall’accademia militare, Juan Carlos diventò re e si comportò come lo fosse sempre stato, con coraggio e intelligenza sia nei passaggi cerimoniali, sia quando, qualche anno dopo, la Guardia Civil tentò un golpe nostalgico e il giovane re si mise in alta uniforme e ordinò ai militari di tornare in caserma e starci. Per trent’anni almeno egli guidò la Spagna da dietro le quinte in modo esemplare, almeno per quanto riguarda gli affari di Stato. Una luna di miele lunga un terzo di secolo e poi gli inciampi, il declino, la minaccia di un’altra transizione causata, in primo luogo, non tanto dai peccatucci del re, quanto dalle conseguenze psicologiche della crisi economica, aggravata da una torturante austerity.

POPOLARITÀ IN PICCHIATA

Negli ultimi mesi, dissero alcuni sondaggi, Juan Carlos era diventato, a Madrid e dintorni, ancora meno popolare di Angela Merkel. Lo si è visto immediatamente dopo il preannuncio dell’abdicazione. Bandiere della Spagna repubblicana sono comparse in decine di città, insieme a una nuova esplosione di sentimenti separatisti in terre inquiete come la Catalogna e il paese basco. Una conferma dell’esito del voto di pochi giorni prima, del successo degli «anti». I partiti dell’establishment sono ora in minoranza e gli altri rischiano di vincere nelle prossime elezioni per le Cortes. È anche per questo che monarca e governo hanno deciso di accorciare i tempi. La Costituzione spagnola non prevede le dimissioni di un re. Bisogna scriverle finché regge l’attuale equilibrio parlamentare e politico.

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