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Il quotidiano fondato da Antonio Gramsci era stato pensato per informare ed educare un partito di massa, il Pci, con i suoi due milioni di iscritti, e offrire alla leadership comunista una tribuna e un mezzo, all’occorrenza, di contro informazione. Per un partito forte, ma distante dal potere reale dell’economia, “l’Unita’” ha a lungo costituito uno strumento di importanza cruciale, i cui costi, sempre esorbitanti rispetto ai ricavi, rappresentavano a pieno titolo un costo della politica, come tale sempre sopportabile e finanziabile attraverso le risorse procurate dalla militanza e, non dimentichiamolo, dall’Unione sovietica. Questo schema, che fondava la necessità dell’”Unità’”, e’ entrato in crisi negli anni Settanta quando Enrico Berlinguer scelse il “Corriere” per la celebre intervista sulla NATO, con la quale prendeva le distanze dal Patto di Varsavia, e con la lottizzazione della Rai, grazie alla quale il Pci acquisì un forte radicamento nella terza rete e non solo.

Nel mezzo secolo successivo, il mondo occidentale chiuso della golden age si è aperto alla globalizzazione, ha generato la crisi della classe media e, come sostiene Guido Rossi, ha ridotto da ultimo anche gli spazi della democrazia e del diritto, mentre il sistema dei media cambiava piattaforme tecnologiche per effetto della tv commerciale, della pay tv, delle radio libere e, più tardi, dei social media e orientamenti culturali in seguito al ’68. Ebbene, in questa trasformazione universale, che in Italia ha messo alla frusta anche i “giornali dei padroni”, secondo la definizione del senatore Ugo Sposetti (nel 2003 salvatore de “l’Unita’” con l’aiuto del banchiere Cesare Geronzi, benefattore anche del “Manifesto”), ebbene in questa trasformazione il giornale fondato da Gramsci non ha mai reciso davvero il suo cordone ombelicale con il partito.

Ormai da anni “l’Unita’” attira investitori privati allo scopo di integrare il finanziamento pubblico e le sempre più scarse contribuzioni del partito nella copertura delle perdite di gestione dell’editrice. Investitori variamente legati alle leadership prima del Ds e poi del Pd che si succedono nel tempo. E’ ora possibile che, per sostenere il giornale, il presidente del Consiglio eserciti un’attrazione fatale su qualche industriale, commerciante o finanziere. Dopo “l’Unita’” dalemiana, veltroniana, bersaniana, lettiana, avremo infine un’” Unità’” renziana? Non lo so, ma sarebbe comunque una testata zoppa. Il premier segretario può ben pensare che il giornale tradizionale, con una tradizionale esposizione in line, non serva più, che sia un lusso non più adatto alla attuale penuria di mezzi.

Il segretario può salvare il brand per rilanciare le feste di partito e, chissà, unificare “l’Unita’” ed “Europa”, altra testata di area Pd a diffusione ancor più ridotta. Ora, se la redazione e’ convinta di avere un progetto adeguato ai tempi, capace di parlare al Paese, e dunque di avere un mercato reale e un equilibrio economico in prospettiva, se così stanno le cose, e’ arrivato il momento che i giornalisti de “l’Unita’” prendano nelle loro mani il destino proprio e quello del giornale costituendo una cooperativa alla quale il partito potrebbe dare la testata in affitto a costo zero. Sarebbe h dura, ma non impossibile, se la cognizione del dolore che viene da una crisi vissuta in prima persona avrà l’effetto di liberare le menti dalla subalternità all’idea che i giornali debbano per forza avere un padrone, fosse pure un partito, fosse pure il Pd, e non cercarsi una strada come public company in forma cooperativa o in forma di società per azioni.

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I consigli di Massimo Mucchetti ai giornalisti dell'Unità moribonda

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