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Dopo lunga riflessione e stipulando una scommessa con se stesso, Ciriaco De Mita, classe 1928, s’è candidato a sindaco di Nusco, la sua città natale, per concludere un percorso politico, iniziato almeno nel 1948 e che gli ha dato molte soddisfazioni, accompagnate da non rare amarezze.

L’ultimo incarico, in ordine cronologico, ricoperto da De Mita è stato di eurodeputato aderente al Partito popolare europeo, conclusosi lo scorso Giovedì Santo con la fine della VII legislatura del parlamento di Strasburgo. Ma il cursus honorum di Ciriaco è ben più consistente: segretario provinciale dei giovani democristiani avellinesi; segretario provinciale dello scudocrociato di Avellino; consigliere nazionale della Dc; deputato nazionale; più volte ministro; segretario nazionale del partito dal 1982 al 1989; presidente del consiglio dal 1987 al 1989; indi presidente del consiglio nazionale della Dc nella Prima Repubblica. Ma De Mita è stato ben altro che un poltronista, un ricercatore di prestigi effimeri, anche se ha tutt’altro che disdegnato l’esercizio del potere.

I più giovani non lo sanno, ma sostanzialmente De Mita è stato il padrone politico dell’Italia per sette anni e mezzo: in nome, però, di una visione politica che incontrava consensi e riconoscimenti, come avversioni, incomprensioni e dissensi cospicui e trasversali. Per dire, nel corso della fine della Prima Repubblica e nei primi anni della Seconda, tra i suoi principali oppositori vi sono stati i sindacalisti che s’accodavano a Franco Marini; gli econometrici che andavano in sollucchero per Romano Prodi e per un europeismo lontano anni luce da quello originario degasperiano; gli ascari di Oscar Luigi Scalfaro, nemico acerrimo dell’Irpinia, capo dello Stato in nome del settarismo etnico e di una personale inclinazione clericale di segno illiberale e dispotico.

De Mita è l’inventore del nuovo patto costituzionale, risalente all’aprile 1967, illustrato a Firenze ad amici democristiani sensibili al riformismo istituzionale, a giornalisti parlamentari e a due osservatori speciali: i comunisti Pietro Ingrao e Giuseppe D’Alema, il padre del più noto Massimo. La formula del nuovo patto costituzionale – cioè di un disegno ordinamentale dello Stato democratico fortemente innovativo rispetto alla carta del 1948 (già allora ritenuta superata presso settori di alto profilo culturale e politico) – non era una teoria. Fu una proposta politica; intesa a cogliere, con il varo delle regioni a statuto ordinario, l’opportunità di distinguere i processi di revisione costituzionale dalle maggioranze parlamentari politiche. La proposta riconosceva il ruolo del Pci nelle auspicate modifiche istituzionali (molto aspra si rivelò in proposito l’opposizione socialdemocratica ispirata dal capo dello Stato Giuseppe Saragat), ma non nella politica ordinaria, allora limitata alla coalizione Dc-Psu-Pri. Ingrao e D’Alema, entrambi esponenti di minoranza nel partito comunista, riferirono alla loro segreteria il significato di quella proposta e dei numerosi incontri che essi ebbero successivamente con De Mita e con alcuni amici della sinistra di Base democristiana.

In sostanza il Pci non era pronto a stabilire intese costituzionali con la Dc. Soltanto nell’autunno del 1973 il segretario comunista Enrico Berlinguer espose in alcuni articoli su Rinascita la sua teoria del compromesso storico: secondo la quale, come dimostrava la recente esperienza cilena di Allende soffocata dal colpo di Stato del generale Pinochet, un partito comunista, per aspirare a governare l’Italia, non poteva immaginare di farlo da solo o assieme ad una alleanza coi socialisti, ma doveva ritenere probabile un successo di una alleanza popolare soltanto se lo schieramento vincitore superasse largamente la maggioranza assoluta dei consensi.

Il compromesso storico berlingueriano era altra cosa rispetto al nuovo patto costituzionale demitiano, anche se costituiva una base per un mutamento di politica generale dei comunisti italiani. De Mita e la Base apprezzarono le intenzioni del leader comunista; non esclusero maggioranze regionali comprendenti anche il Pci; ma, come avevano spiegato al convegno di Firenze del 1967, ritenevano che quelle intese futuribili non dovessero riguardare pezzi dei partiti (come sostenevano gruppi di sindacalisti scudocrociati attraverso l’ebdomadario Settegiorni), ma i partiti con le loro maggioranze. Il Pci considerò il voto popolare del 20 giugno 1976 come un’occasione per sperimentare una nuova linea verso la Dc; e, appena Aldo Moro propose ai comunisti una forma indiretta di solidarietà politica con la Dc, il Pci si affrettò a dichiarare la propria, temporanea disponibilità (da realizzarsi attraverso un voto di astensione) a consentire il varo di un governo monocolore democristiano affidato ad Andreotti. In cambio, Berlinguer chiese la presidenza della camera per il leader della sinistra comunista, Pietro Ingrao. Dalla astensione si passò a trattative per dar vita ad un governo che potesse avere anche il consenso dei comunisti. Il 16 marzo 1978 i brigatisti rossi, interpretando anche un orientamento vivo nel retroterra elettorale del Pci, rapirono (e poi assassinarono) Aldo Moro, di fatto ponendo fine anche alla teoria del compromesso storico.

Ma il nome di De Mita restò, nelle polemiche politiche e nella storiografia luogocomunista, come l’uomo dell’alleanza col Pci. Non era vero; come era falso che Moro fosse politicamente più avanzato rispetto alla proposta del nuovo patto costituzionale. Però, in Italia, si rimesta sempre l’aria nel mortaio, annunciando di continuo propositi riformatori che rimangono negli archivi delle bicamerali o degli istituti di ricerca. Sicché, nel 2014, si è allo stesso punto in cui era la discussione sulle riforme istituzionali al tempo della segreteria democristiana di De Mita del 1982, che pure consentì un avvio, apparentemente fruttuoso, della commissione del liberale Aldo Bozzi, di cui fu magna pars il collaboratore di De Mita Roberto Ruffilli, anch’egli assassinato dai terroristi rossi.

La Seconda Repubblica non è mai riuscita a recuperare il senso delle rivoluzione costituzionale. Così come ha smarrito l’europeismo di De Gasperi condiviso dal francese Schuman e dal tedesco Adenauer, che si videro osteggiati dai comunisti di Francia, Italia e Germania. A 86 anni compiuti De Mita non ha smesso di pensare che l’Italia o si riforma nel suo ordinamento e, contemporaneamente, riacquista capacità d’iniziativa in Europa per renderla politica e compiutamente democratica, o la classe politica di oggi si avvia ad un ulteriore, irresponsabile declino. Per quanto lo riguarda personalmente, non rinuncia alle sue idee innovative; si ritira nel territorio natio, anche perché, giornalisticamente e non solo, Nusco equivale a De Mita, e viceversa; e propone, una volta eletto sindaco, di dare vita ad una Fondazione culturale dell’Alta Irpinia. Non solo per meglio fare apprezzare quella che è una sorta di Svizzera appenninica (Vittorio Feltri riconosce che Nusco, qualitativamente, supera l’elvetica Bellinzona), ma al fine di recuperare anche le carte che documentano una storia recente che poteva dare lustro all’intera nazione, ed è stata invece meschinamente letta con la miopia del piccolo cabotaggio politico.

La scelta non etnicista di Ciriaco De Mita

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