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Non è una questione d’Europa e non è una questione d’Italia. Non è il Nord o il Sud. Non è la crisi e non sono gli 80 euro la soluzione. Non sono le aziende che chiudono e non è lo spread.
È una questione di persone. Se analizziamo quanto successo in questi ultimi 2 anni quello che emerge è una Italia con un problema sociale.

Un giusto paragone può essere quella fase dell’adolescenza in cui si devono imparare le regole per stare al mondo. Quella fase In cui iniziano le responsabilità, quando si hanno degli obblighi precisi e quando si inizia a capire che non rispettarli comporta una sanzione ed in alcuni casi non si ha la possibilità di chiedere scusa e far finta di niente. All’Italia di oggi è stato detto che deve pagare le tasse a fronte di anni in cui la lotta all’evasione fiscale era, diciamoci la verità, in fin dei conti quasi tollerata.
Pagare le tasse è una questione di cultura. Essere cittadini è qualcosa che si impara sentendosi parte di un sistema. La tendenza però è quella di saper chiedere il diritto di prendere ma non quello di avere.

All’Italia è stato detto che per crescere bisogna internazionalizzare, ma per internazionalizzare bisogna adeguarsi. E la verità è che banalmente in molte aziende italiane le prime linee non parlano neanche inglese. Troppo semplice chiedere allo Stato programmi per cogliere le sfide globali, ma declinare i piani operativi dai massimi sistemi in azioni concrete è in tanti casi ancora troppo complicato. E allora le aziende restano ferme, le banche non investono, la produttività scende, i prezzi salgono, il potere d’acquisto diminuisce, la gente non compra, il lavoro cala, le imprese chiudono. Le tasse non si pagano, lo Stato è in deficit, i servizi non ci sono. E la colpa è sempre dello Stato.
Ma è davvero così? E se fossimo ognuno di noi lo Stato?

Per tanti Italiani oggi l’Italia è un posto stretto, meglio Londra, New York, Singapore.
Perché come per gli adolescenti si preferisce scappare dal compito di latino piuttosto che provare e riprovare a fare la versione. Ma se si capisse che è arrivato il momento della rivoluzione in ognuno di noi, e non quella urlata da Grillo ma quella del Fare partendo da noi stessi. Se il tempo sul divano si trasformasse in azione, se le competenze fossero valorizzate dai capi azienda secondo logiche meritocratiche e non politiche, se chi lo governa questo Paese ne facesse davvero una casa di vetro, se ognuno di noi ci credesse un po’ di più, ed osasse inventarlo un lavoro, se potessimo sperare ancora come fecero i nostri nonni, se dimenticassimo che lo stadio è il luogo dove sfogare frustrazioni che vanno ben oltre due tiri ad un pallone, cosa succederebbe?
Inizierebbe la gioventù di questo.

Paese capriccioso. La responsabilità di dire “ci riguarda”. Un po’ come quando ci si svegliava all’alba per studiare. L’Italia cresce se cresce la sua coscienza sociale, se i modelli sono quelli del fare e non quelli dell’aspettare e che altri faranno. Partiamo da quello che ci riguarda ogni giorno, l’ora in più in ufficio, l’investimento su un giovane in azienda, quel brevetto innovativo, la legalità nelle scelte.

Ripartiamo da noi, possiamo farcela.
Dobbiamo farcela. Siamo italiani.

Ripartiamo da noi, possiamo farcela

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