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Se un ribelle del sud ha la necessità di riposarsi dai giorni di battaglia, può raggiungere la sua famiglia nelle città giordane vicine al confine con la Siria; quando poi deve tornare alla guerra, ci sarà chi alla frontiere chiuderà un occhio per permettere il passaggio. E se ha bisogno di armi, non deve far altro che chiamare il centro di comando di Amman, per farsele inviare.

Tutti smentiscono sulla sua esistenza, ma è un «open secret», come lo ha definito Ben Hubbard sul New York Times. Dalla piattaforma logistica, l’intelligence giordana (con quella saudita e americana), ha fornito – se n’era parlato – armi, munizioni, Manpads anticarro, assistenza, ma in modo troppo tiepido. Almeno a detta di molti comandanti che combattono il conflitto tra le forze di opposizione nelle zone a sud. Anche il fantomatico Fronte Meridionale, in realtà non sembra essersi costituito nel modo scoppiettante con cui se n’era parlato all’inizio.

Il conflitto stalla: da un lato i ribelli si vantano di essere “certificati”, non contaminati dalle presenze fondamentaliste – anche grazie al rigido controllo dei confini operato dalla Giordania, differentemente da quello che da sempre succede in Turchia -; al-Nusra è sotto controllo, l’Isis è quasi assente in queste regioni. Ma dall’altro, lamentano la poca consistenza degli aiuti. Quasi come se fosse tutta soltanto un’operazione per tenere il conflitto lontano da Amman, e c’è qualcuno come Bashar al-Zoubi, il capo della Yarmouk Division, che dice che se veramente si fosse voluto, «Assad sarebbe stato sconfitto in 10 giorni». Ma non si è voluto.

John McCain – senatore dall’Arizona, diventato sempre figura chiave dei conservatori alla Camera Alta – in un’intervista alla CNN l’altro ieri, aveva parlato della necessità di aiutare l’Ucraina con l’invio di armi (almeno come deterrenza), contestando in un parallelo la politica di Obama in Siria, dove la Casa Bianca avrebbe «ormai abbandonato il Free Syrian Army». Dalle parole dei capi combattenti di questi ribelli, si capiscono le difficoltà che incontrano nel tenere uniti gli organici: il generale Abdullah Qarayiza, che guida un gruppo nella città siriana di Nawa (a pochi chilometri dal confine giordano) ha raccontato al Nyt di aver ricevuto 25 mila dollari in contanti per pagare i suoi uomini: «50 dollari ciascuno – ha detto – nemmeno per le sigarette!». E i soldi presi alla centrale operativa di Amman diventano ancora meno davanti agli altri, quelli dei jihadisti (finanziati dai privati), che godono di stipendi, ricoveri, cibo, armi, e sono in grado di prendersi cura anche delle proprie famiglie.

Tra gli uomini che combattono al sud, comincia a serpeggiare un dubbio: come se gli Stati Uniti non volessero veramente concludere questo conflitto. C’è chi pensa che in fondo, sia tutta una strategia per tenere la Siria impegnata militarmente e proteggere Israele, e chi dice che a questo punto Obama non sa più cosa sperare: battere Assad significherebbe aprire alla possibilità di una pericolosa deriva islamista – soprattutto perché senza le forze dei ribelli jihadisti, ormai è difficile vincere, e la storia insegna -, ma d’altra parte ogni forma di sostegno al presidente sarebbe impensabile. Allora la soluzione migliore sembra essere diventata quella di lasciar combattere la guerra: il rischio, però, è che dall’altro lato delle barricate, Russia e Iran continuino ad aumentare il sostegno al governo siriano – ieri si è visto un drone iraniano di ultima generazione sorvolare Goutha, il quartiere di Damasco tristemente noto per la vicenda dell’attacco con le armi chimiche di agosto scorso, e la Tv di stato ha fatto sapere che l’Iran invierà anche un carico extra di aiuti alimentari all’esercito e alle popolazioni lealiste.

In questo modo Assad potrebbe riuscire a schiacciare le forze ribelli, cominciando da quelle “buone” – ormai le più deboli nonostante quello che doveva essere il supporto internazionale -, riprendendo il controllo, in uno stato pieno di instabilità e contraddizioni (aumentate anche dalla presenza di chi resterà a combattere la jihad).

Siria, i ribelli chiedono più sostegno

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Miguel Arias Cañete

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