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La sentenza della Corte costituzionale tedesca, chiamata ad esprimersi sul piano di intervento sul mercato dei titoli di Stato, l’Omt (Outright Monetary Transactions) della Bce, ha diviso esperti e opinione pubblica.

Secondo il sito economico LaVoce.info le reazioni principali sono state due. “C’è chi ha esultato per le sorti dell’euro, basandosi sul fatto che la Corte tedesca ha rinviato la decisione alla Corte di Giustizia europea, che secondo le previsioni darà un verdetto favorevole al piano della Bce e chi, soprattutto in Germania, ha esultato per il motivo opposto: la Corte avrebbe dato ragione ai detrattori del programma Omt, i quali sostengono che esso è illegale“.

Al di là delle divergenze di valutazione, tutti concordano sulla valenza storica della sentenza letta il 18 marzo scorso a Karlsruhe.
Un documento di 78 pagine in lessico giuridico molto tecnico che – rileva l’economista Giuseppe Pennisi – ha “una por­tata ben superiore a quanto indicano le cronache basate su dispacci di agenzia“.

Il motivo risiede nel fatto che tale sentenza, non rispon­derebbe solamente al quesito posto dai ricorrenti sulla legittimità, in base al diritto della Repubblica Fe­derale Tedesca, degli accordi con cui è stata sta­bilito l’European stability mechanism (Esm): i 700 miliardi di euro, versati dagli Stati dell’Eurozona, conosciuti in lessico giornalistico come Fondo salva Stati e sul già citato Omt.

Per Pennisi, che va oltre tale lettura, “il significato politico ed econo­mico della sentenza è nelle strade che apre ed anche quelle che chiude“.

In primo luogo, analizza l’economista, “mette un pun­to fermo nelle discussioni sull’opportunità o me­no di aggiornare il Trattato di Maastricht, a circa 25 anni dal negoziato“.

Il confronto è tra un cam­biamento “a spizzichi e bocconi” o, invece, l’ini­zio di una nuova grande trattativa per riscrivere tutto da cima a fondo e successivamente sotto­porre il prodotto a ratifica o, ove necessario, a re­ferendum.

Su questo punto, spiega Pennisi, “la sentenza è chiara“: una riscrittura del Trattato “non è giuridicamen­te necessaria sino a quando si resta nel suo al­veo“. Può, però, aggiunge, “essere politicamente opportuna per evitare l’accavallarsi di norme (in lessico gior­nalistico, si tratterebbe di fare “un testo unico” piuttosto che un nuovo Trattato). Sotto il profilo politico, è una porta, quindi, che si apre“.

Nell’euforia dei commenti sulla sentenza, non si deve – a parere dell’economista – evitare poi di vedere che essa “chiude l’op­zione di rivedere il Fiscal Compact o di dare ad es­so interpretazioni lasche per avere deroghe in ma­teria di rapporto indebitamento netto e Pil e di ri­duzione dello stock di debito pubblico“. Al con­trario, la costituzionalità del Fondo salva Stati “è giustificata nella sentenza proprio grazie al rigo­re del Fiscal Compact“. Per chi ha un forte debito rispetto al Pil, la strada resta stretta e in salita, con soddisfazione di Berlino, meno dei Paesi periferici dell’Unione europea.

La sentenza ripercorre poi meticolosamente il per­corso che ha portato dal Trattato di Maastricht ad altri accordi, sotto forma di protocolli interpreta­tivi o di intese interstatuali (che in certi casi non richiedono ratifiche parlamentari o, in certi Sta­ti, referendum).

In tal modo, facendo riferimenti puntuali a quelli che possiamo chiamare gli atti fondamentali dell’Unione monetaria, conclude Pennisi, “la senten­za dei giudici non trova che i nuovi accordi con­traddicano o si distanzino da quanto stabilito e ra­tificato dal Parlamento tedesco, all’inizio del cam­mino verso l’euro. La sentenza pone un accento particolare sul Fiscal Compact in quanto, in Ger­mania, il ricorso contro il Fondo salva Stati è da leggersi, sotto il profilo politico, come un nuovo tentativo di mettere in dubbio la costituzionalità dell’accordo sulle politiche di bilancio“.

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