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Quattrocentotrentasette brand italiani finiti in mano agli stranieri tra il 2008 e il 2012 – in cambio di 55 miliardi di euro, secondo le rilevazioni di Kpmg.
Una tragedia? Un esodo depauperante? O la salvezza per imprese ormai decotte e senza futuro?

LE ULTIME (S)VENDITE

Nei primi due mesi del 2014 le colonne dei giornali sono state occupate dalla cessione di Poltrona Frau all’americana Haworth, e di Krizia, acquisita dalla cinese Shenzen Marisfrolg Fashion. L’anno scorso le attenzioni si erano appuntate su Telecom, per l’offensiva di Telefonica. O meglio della sua holding Telco, che nella società italiana ha una quota di oltre il 22,4% ma di fatto la controlla grazie al patto di sindacato con le banche azioniste. Ed è notizia sempre del 2013 l’interesse della società qatarina Eithad per la nostra compagnia di bandiera, Alitalia – dove in altri tempi la cacciata dei francesi, c’è da dire, non ha però giovato, anzi.

LE ALTRE FRAU

Gli esempi negli anni si sprecano. La cioccolata Pernigotti, ceduti dai Fratelli Averna ai turchi Toksoz. Lo stilista del cachemire Loro Piana, finito nell’orbita del colosso francese del lusso Lvmh, la cui potenza di fuoco in precedenza gli aveva fatto conquistare senza resistenze Bulgari, Fendi, Pucci. Anche Gucci e Pomellato sono finite in Francia, sotto il cappello di Kering, l’ex Ppr. Insieme a Dodo, Bottega Veneta, Brioni e Sergio Rossi.

NON SOLO MODA

Moda, ma anche alimentare. I gelati Algida, le marmellate Santa Rosa, il riso Flora? Anglo-olandesi, di Unilever. E che dire dell’olio Bertolli, Carapelli e Sasso che hanno preso la citttadinanza spagnola grazie a Sos Cuetara? La francese Lactalis, oltre a Parmalat, ha in pancia Galbani, Invernizzi, Cademartori, Locatelli e Président; la Nestlé si è mangiata Buitoni e Sanpellegrino, Perugina, Motta, l’Antica Gelateria del Corso e Valle degli Orti; i sudafricani di SabMiller hanno fatto loro la Peroni; l’oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vokda Russki Standard, ha comprato Gancia. L’elenco potrebbe continuare e quello completo è contenuto in uno studio realizzato da Eurispes con il sindacato Uil: “Outlet Italia. Cronaca di un Paese in (s)vendita”.

GUADAGNO O PERDITA?

Ovviamente a ogni cessione di un’italiana si lancia l’allarme. Certo i rischi ci sono, soprattutto occupazionali perché è possibile che l’acquirente stranieri sposti la produzione a casa o altrove fuori dall’Italia. Ma i numeri dicono anche altro. Intanto, secondo Prometeia, che analizza le performance delle imprese finite Oltre Confine in media il fatturato, dagli anni Novanta, è cresciuto del 2,8% l’anno; l’occupazione del 2%, anche in territorio italiano, e la produttività dell’1,4%. Per non dire delle quotate in Borsa, dove c’è semmai una sotto-rappresentazione di investitori stranieri.

POCHI INVESTITORI STRANIERI IN CONSOB

Secondo Consob, su 246 società quotate, ben 114, pari al 66,9% della capitalizzazione complessiva, non hanno neppure un azionista rilevante, cioè con una quota sopra il 2% del capitale, estero. L’analisi mostra che del 44,3% della capitalizzazione in mano agli azionisti rilevanti, solo il 5,6% è straniero. E il Bel Paese, secondo uno studio effettuato nel 2010 dalla Federazione europea delle Borse (Fese), nell’Europa a 27 è penultimo quanto a investimenti esteri sul listino, seguito solo da Cipro.

CHI E PERCHE’ COMPRA IN ITALIA

Un fatto è certo: gli stranieri comprano qualità e se lo fanno con un interesse industriale e strategico, propongono piani di rilancio che fanno solo bene ai titoli. “Certamente – afferma Anna Lambiase, amministratore delegato della società di consulenza IR Top – la presenza di azionisti stranieri all’interno di una società quotata è un segnale di forte fiducia nel business aziendale; il titolo ha superato una barriera del rischio Paese spesso deterrente per l’asset allocation sull’azionario italiano; anche la governance ne esce rafforzata; la disclosure è più ampia. Il parametro ”estero” nel capitale di una quotata è quindi positivo”.

PARLA L’ECONOMISTA

“Il punto – afferma Fabiano Schivardi, professore di economia politica alla Luiss di Roma – non è la nazionalità di chi compra, quanto che le imprese siano ben gestite. Io dico: apriamo le frontiere, ma creiamo le condizioni per fare bene impresa in Italia in modo che dall’estero arrivino capitale e competenze che non abbiamo, ma ci sia allo stesso tempo l’interesse degli stranieri a conservare il business qua”.

I TIMORI DEL SINDACALISTA

Uno dei maggiori rischi connessi all’espatrio è che con la proprietà fuggano all’estero anche i posti di lavoro. “Può accadere – spiega Benedetto Attili, segretario generale Uil-Pa – che, rilevata un’azienda che prima produceva in Italia, si trovi più conveniente delocalizzare la produzione in Paesi con minor costo del lavoro, meno barriere burocratiche, ma anche normative assai diverse dalla nostra sia sul piano della sicurezza sul lavoro sia su quello della tutela della salute dei consumatori. Le conseguenze di ciò sono ben note: perdita di posti di lavoro, di personale specializzato e, inevitabilmente, abbandono degli standard di qualità del prodotto”.

L’OPINIONE DEL SOCIOLOGO

Ma anche tradizione esperienza e storia vengono cancellate. A prezzi di saldo perché con la crisi molte imprese sono state svendute. “Schiacciate – afferma Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes – dalla congiuntura economica negativa, dall’iperburocratizzazione, da una tassazione iniqua, dalla mancanza di aiuti e di tutele e dall’impossibilità di accesso al credito bancario”, sono state costrette ad accettare prezzi di vendita a saldo. “Spesso poi – continua Fara – le nostre aziende vengono acquistate da altre aziende di paesi stranieri, vengono svuotate dei macchinari e del know-how, e mai riaperte”.

Ecco chi, e perché, fa shopping di aziende in Italia

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