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Pubblichiamo il primo di una serie di tre articoli scritti dall’editorialista e saggista Federico Guiglia usciti sul quotidiano il Messaggero

“Signori della Corte, salvate l’italiano da chi vuole cancellarlo in Italia”. Altro che maestro Alberto Manzi o Luciano Rispoli con la televisione, o il canto di Laura Pausini e le recite di Giorgio Albertazzi, o l’arte di Riccardo Muti, di Dario Fo più quanti, tanti, hanno contribuito alla diffusione della lingua italiana in patria e nel mondo. Adesso, per continuare a parlare l’idioma “del bel paese là dove ‘l sì suona”, non si potrà più scomodare padre Dante, neanche per interposto Benigni: bisognerà bussare alle porte, mai così solenni, del Consiglio di Stato e della Corte Costituzionale, e che Dio ce la mandi buona.

C’è già la data del giudizio universale, l’11 marzo. I “supremi” giudici amministrativi della sesta sezione dovranno decidere su un ricorso che sarebbe comico, se non fosse triste. Il ricorso del Politecnico di Milano, la cui posizione è stata da poco bocciata con una durissima sentenza del Tar della Lombardia. Ora il Politecnico torna alla carica con l’obiettivo, nella sostanza, di poter sostituire alla lingua italiana, nei corsi di laurea magistrale e di dottorato di ricerca, la lingua inglese. Tutto e solamente come Shakespeare comanda, oh, yes! Poco importa se il controverso tentativo del Senato Accademico è stato contestato da cento docenti del Politecnico medesimo: quelli che hanno vinto al Tar. Ma che sorpresa tra le righe: anche il ministero dell’Istruzione a Roma spalleggia il ricorso del Politecnico a Milano. Atto formale e scontato o il ministero che istruisce pensa che, in una pubblica università d’Italia, l’italiano possa essere non affiancato, ma buttato via, per il “to be or not to be” del pur caro amico William? Quale Paese dell’universo lo fa o lo farebbe con la sua madre-lingua?

L’idea che dell’italiano si possa fare a meno nell’indifferenza generale e istituzionale, ha contagiato anche il Consiglio provinciale di Bolzano. Che sul finir della sua precedente legislatura, tanto per non dare troppo nell’occhio, ha approvato una legge che elimina gran parte dei nomi italiani dalla toponomastica bilingue (italiano-tedesca) esistente da quasi un secolo in Alto Adige. Stavolta la legge taglia-Italia è finita alla Corte Costituzionale. Dove “giace” da più di un anno come un paziente sul quale si ha paura d’intervenire. Silenzio. Il governo-Monti l’aveva impugnata con un altro, durissimo ricorso. Il governo d’oggi, invece, tergiversa: ha chiesto alla Corte Costituzionale di non pronunciarsi ancora, immaginando che essa userebbe la scure contro una simile pretesa. Evitare polemiche. La Corte sa che l’italiano “è la lingua ufficiale dello Stato”, come stabilisce una norma di rango costituzionale. E allora Roma e Bolzano “trattano” su principi intrattabili dietro le quinte. Abolire tutti i nomi italiani magari no, però abolire alcuni nomi italiani magari sì. L’italiano negato, ma solo un po’, una fettina della toponomastica, che sarà mai? E poi va a beneficio, per una volta, non dell’inglese, ma del tedesco: c’est plus facile.

Mentre il paziente inglese, pardon, tedesco dorme tranquillo nella culla del diritto alla Consulta, dove nessuno osa svegliarlo per dirgli che neanche a pezzettini si può violare la Costituzione della Repubblica, l’un tempo compagnia di bandiera s’è inventata una trovata al volo: il personale italiano a bordo di Alitalia si dà gli ordini in inglese. Succede da molti mesi, ma ogni volta che “disarmano gli scivoli” o che l’”imbarco è terminato”, bisogna ascoltare l’annuncio in inglese maccheronico, cioè tradotto dall’annuncio che sempre si faceva in italiano. A sprezzo del ridicolo: né Air France né Iberia hanno smesso di dirsi in francese o in spagnolo quelle quattro parole che non cambiano la storia, ma danno l’idea del rispetto per la propria lingua.
Sempre ai magistrati, ma europei, il governo italiano era ricorso per impedire che nei concorsi pubblici dell’Unione l’inglese, il francese e il tedesco la facessero da padrone rispetto a tutti gli altri idiomi, nostro compreso. Fra Bruxelles e Lussemburgo, l’Italia ha vinto alla Corte di Giustizia. E’ bello difendere la lingua millenaria di Dante. C’è posto per tutti nella splendida sinfonia poliglotta del nostro tempo.

Tuttavia, quando i massimi rappresentanti dell’Italia vanno alle Nazioni Unite per parlare nell’esercizio delle loro funzioni, e non al bar, anziché rivolgersi ai vicini e lontani in italiano come il mondo si attenderebbe, optano per l’inglese o il francese. Forse i nostri non sanno che hanno inventato la traduzione in cuffia per chi ascolta in sala senza capire. Né sanno che i tedeschi o i giapponesi (per non dire di altri) parlano in tedesco e in giapponese, e buona cuffia per tutti.

Chissà chi saranno i “Signori della Corte” dell’Onu. Ma siano pietosi anch’essi: ci aiutino a salvare l’italiano dal provincialismo degli italiani che si fanno male da soli, in casa e nella casa del mondo.

Salviamo l'italiano dal provincialismo degli italiani

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