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S’è celebrato martedì 11 febbraio il trentacinquesimo anniversario della rivoluzione iraniana capeggiata dall’ayatollah Khomeini, che ha portato alla caduta dello scià e alla fondazione della Repubblica Islamica.

Il presidente eletto a giugno 2013, il moderato Hassan Rouhani, ha parlato davanti alla folla radunata nella capitale, nella piazza antistante alla Torre Azadi (qui il video del raduno, qui quello del discorso), ricordando tra le altre cose l’importante percorso dei negoziati sul nucleare che il Paese ha intrapreso dal fine novembre scorso – e che riprenderanno la prossima settimana: «L’Iran è determinato a mantenere colloqui equi e costruttivi nel quadro delle regolamentazioni internazionali, con la speranza di vedere la medesima intenzione anche dall’altro lato» ha sottolineato. Passo importante, vittoria delle posizioni politiche d’apertura di Rouhani, che sembrerebbero aver allentato le tensioni internazionali, create dopo quasi un decennio di emarginazione – e sanzioni – durante la presidenza di Ahmadinejad.

Quasi contemporaneamente, Obama durante la conferenza stampa congiunta con il suo omologo francese Hollande (in visita ufficiale a Washington), ricordava della necessità di dare nuova spinta per risolvere le due grosse questioni in atto nel mondo Mediorientale: la guerra in Siria e l’Iran. Della necessità di cambiamento della strategia contro Assad, se n’era già parlato attraverso quelle dichiarazioni uscite dalla riunione che il Segretario di Stato Kerry, aveva avuto con i delegati del Congresso americano ai colloqui di pace – in cui lo stesso Kerry mostrava sfiducia verso le politiche intraprese.

Davanti ad Hollande, è arrivata anche la disponibilità a irrigidire le posizioni contro l’Iran – la Francia, tra i paesi invitati ai colloqui (il P5+1, Usa, Russia, Gran Bretagna, Francia, Cina e Germania) ha da subito avuto visioni più intransigenti – mostrandosi pronto anche a rafforzare le sanzioni, qualora Teheran non si mostri leale. Ed è tutto lì il punto: la fiducia, che in realtà è stata labile fin dai primi periodi.

Ma il governo di Teheran non ha solo problemi con la fiducia esterna, quella che gli altri stati rivolgono sulla lealtà dei suoi intenti. Il presidente e il principale negoziatore, il ministro degli esteri Javad Zarif, devono gestire anche le tensioni con le potenti realtà estremiste interne al Paese, come le Guardie della Rivoluzione (IRGC) – corpo militare istituito nel 1979 per difendere il sistema religioso clericale e le questioni di sicurezza nazionale, sotto il diretto controllo della Guida Suprema Ali Khamenei – molto critiche sui negoziati, condotti, a dir loro, con troppa mollezza e ambiguità. È anche per questo che non di rado il presidente e i suoi, insistono nell’usare toni minacciosi nelle dichiarazioni – il caso per esempio del giorno dell’anniversario della Rivoluzione quando alle parole spese sulla volontà di dialogare con le forze internazionali, facevano eco poco dopo queste altre: «Il governo di Teheran ha avviato una politica estera moderata, ma ciò significa nel contempo nessuna resa, nessun compromesso e nessuna opposizione. L’Iran continuerà a progredire in direzione della tecnologia nucleare pacifica» – che sembrano a tutti gli effetti provocazioni verso gli Stati del P5+1, ma in realtà potrebbero più facilmente rappresentare escamotage per mantenere gli equilibri politici interni.

Dietro la contrapposizione dei Guardiani, però, non ci sono soltanto le ragioni ideologiche – intaccate dal dialogo avviato con il Grande Satana, gli Stati Uniti. C’è di più: ci sono soldi, quelli che le società controllate dai Guardiani potrebbero perdere dalle politiche di Rouhani. Con Ahmadinejad era stata aumentata la partecipazione del corpo militare alle attività economiche del Paese, sotto l’egida dell’ayatollah che molto spesso sovrapponeva a queste gli interessi delle società da lui controllate – per cui Reuters ha stimato un valore di 95 miliardi di dollari. Attività che riguardano la partecipazione nelle principali aziende di telecomunicazioni e soprattutto in società di costruzioni, che mantenevano una specie di monopolio su grandi opere e infrastrutture, sfruttando anche l’applicazione delle sanzioni internazionali per muoversi più agilmente nel settore interno.

I Guardiani controllano attualmente ampie fasce dell’economia locale, ma soprattutto rappresentano un riferimento politico e culturale: per questo Rouhani sta utilizzando l’apertura sui negoziati sul nucleare, e l’auspicato alleggerimento delle sanzioni, per diminuire la loro presenza economica e, di conseguenza, l’influenza delle loro visioni radicali nel Paese.

D’altronde è la stessa posizione di Khamenei, fin qui favorevole agli accordi sul nucleare, a dare forza al presidente: con i Guardiani che viste anche le attuali pessime condizioni dell’economia iraniana, sono tenuti buoni dall’ayatollah.

Su certe letture, però anche l’IRGC non appare un blocco monolitico, e qualche comandante comincia a smarcarsi – seppur agendo per ora nell’anonimato – rilasciando dichiarazioni a favore del governo e dei colloqui.

Il punto adesso è tutto nelle mani di Rouhani: il processo di moderazione dell’Iran da lui cercato, sta procedendo, passando anche attraverso la riapertura delle relazioni internazionali; ma è tutto un gioco di equilibri, anche dialettici. Se il presidente tirerà troppo la corda nelle trattative e si mostrerà debole nelle concessioni, Khamenei potrebbe togliere il sostegno e aprire il fianco del governo alle incursioni dei Guardiani.

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Iran: i dialoghi sul nucleare e le tensioni interne

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