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Le elezioni europee del maggio 2014 ci pongono una semplice domanda: volete proseguire con l’Europa che c’è, oppure volete cambiarla?

Se la risposta al quesito è che si vuole continuare così come siamo oggi, cioè con l’austerità, le banche, il fiscal compact, l’assenza di controllo democratico, la perdita di posti di lavoro, e la progressiva diminuzione dei diritti sociali e delle conquiste civili, è sufficiente votare per qualsiasi delle formazioni politiche nazionali che aderiscono ai gruppi PSE e Socialisti & Democratici, oppure per al PPE – Partito Popolare Europeo. Quest’insieme di partiti comunica la propria professione di fede politica nell’europeismo, cioè nell’Europa che c’è ad ogni costo. Per i partiti che si riconoscono nel PSE e Socialisti & Democratici il leader che dovrebbe diventare presidente della Commissione europea è il tedesco Martin Schulz, un grigio socialdemocratico che gode di poco sostegno persino in patria. Per i partiti che si riconoscono nel PPE il candidato dovrebbe essere, dopo la potente sponsorizzazione della cancelliera tedesca Merkel, l’ex premier del Lussemburgo, Jean-Claude Juncker, un triste tecnocrate bancario che è stato per dieci anni il presidente dell’Eurogruppo, cioè dell’organo intergovernativo di gestione dell’Euro.

Nel caso l’elettore non volesse continuare con l’Europa che c’è, cioè volesse conservare l’impostazione economica e monetaria solo se la sua gestione è data ad organi centrali democratici di decisione, pretendesse che si realizzi un’Europa politica (ad esempio, gli Stati Uniti d’Europa di spinelliana memoria), che l’Europa si dotasse di fondi sufficienti per promuovere lo sviluppo economico e sociale armonioso, che la carta dei diritti contenuta nel Trattato di Lisbona divenisse effettiva, che le politiche dell’Unione europea guardassero ad un futuro migliore in termini sociali, ambientali, di sicurezza e di qualità della vita, allora non saprebbe per chi votare. Quest’elettore è un probabile astenuto per mancanza di offerta politica in questo ambito. Non a caso, nel 2009 il 65% degli aventi diritti al voto europeo già scelse l’astensione. Quindi, la maggioranza degli elettori europei aveva già bocciato l’indirizzo che da cinque anni ci viene imposto perché “l’Europa ce lo chiede”!

Però, nelle elezioni del 2014 ci sono alcune novità di rilievo.

La prima è che la rabbia, lo sconcerto, la delusione popolare diffusa tra i cittadini di tutti i paesi membri si sta coagulando attorno a formazioni nazionaliste e anti-Europa, che distruggono l’esistente senza creare nulla di nuovo ma inneggiano alle cure demiurgiche del ritorno alle sovranità locali e nazionali. Insomma, un ritorno al passato condito dalla riesumazione di vecchi rancori e paure dell’altro, comunitario o extra-comunitario. Queste formazioni politiche sono presenti in molti paesi europei ed agiscono sugli istinti primari della popolazione disorientata sfruttandone le paure verso il futuro. La loro affermazione elettorale sarebbe una vera iattura sociale che rallenterà il progresso di tutti in Europa, anche di coloro che si riconoscono nell’europeismo omologato o di regime. I segnali di polarizzazione e radicalizzazione che vedono fortissimi in Francia, Austria, Spagna, Regno Unito, Olanda, Grecia, Belgio, sono poco incoraggianti. Queste creature politiche sono la reazione reazionaria direttamente commensurata al fallimento dell’europeismo omologato per tornare al vecchio (e insostenibile) sistema nazionale.

La seconda novità è rappresentata da formazioni politiche eterogenee che raggruppano i delusi dell’europeismo che non si rassegnano al determinismo di un’Europa indigeribile e sempre meno sostenibile. A queste formazioni si identificano sia cittadini di destra che di sinistra. Il tratto comune di tutti questi gruppi è la richiesta di cambiamento, di innovazione, di progresso, che oscilla tra modalità radicali, evolutive-riformiste e quelle distruttive-creative. Ciascuna trova un motivo aggregante, dall’ostilità ideologica all’Euro a quella contro le grandi infrastrutture, dal pacifismo idealista al movimentismo di base ad oltranza, dal neocorporativismo agli apologeti dell’iper-concorrenza di mercato. Le principali formazioni di questo tipo si trovano in Italia, Grecia, e Germania. Una galassia in ebollizione dai risultati ad oggi imprevedibili.

È probabile che il blocco di potere “europeista” rappresentato da una possibile grande coalizione europea tra PSE e PPE riesca ad avere comunque il controllo di una maggioranza dei seggi del Parlamento europeo. Ma un tale risultato sarebbe la condanna definitiva per l’Europa ad essere governata in modo opaco, cioè attraverso metodi elitari, oligarchici, gestiti da tecnocrati governativi. Per capirci, traslando l’esperienza italiana, è come l’esercizio del governo dei tecnici di Mario Monti su scala europea. Un tale risultato darebbe probabilmente effetti immediati ma non è credibile una sua durata nel tempo. Il rischio è la saldatura tra il malcontento della popolazione degli esclusi, che già oggi è l’80% dei cittadini, e forme di resistenza che potrebbero sfociare nel caos e nella violenza come avviene già in Ucraina.

Per salvare l’Europa, il suo ideale e il progetto politico e sociale, c’è bisogno di figure federative della maggioranza degli elettori. Solo un progetto politico di “populismo progressista”, sullo stile di Obama o di Gorbacev, può salvare il continente europeo da un disastro annunciato.

È in quest’ambito che l’esperienza democratico-cristiana italiana e tedesca potrebbero trovare un compromesso per scongiurare il peggio. Non è più il tempo dell’asse Parigi – Berlino, peraltro assai improbabile nelle condizioni politiche attuali dei rispettivi paesi, ma di un grande progetto euro-atlantico e eurasiatico che Germania e Italia possono contribuire a forgiare, con la benevolenza americana e russa.

Un progetto euro-atlantico e eurasiatico per salvare l’Europa

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