Recatomi di prima mattina alla comoda edicola elettronica, ho letto in religioso silenzio l’abituale omelia laica di Eugenio Scalfari. L’ho fatto sicuro di vedere spuntare questa volta, diversamente dalla domenica precedente, un po’ di quel “mantello protettivo” sul nuovo direttore di Repubblica, Mario Calabresi, fiduciosamente annunciato dal direttore uscente Ezio Mauro, a dispetto delle voci circolate in senso contrario.
Tutto sembrava dare ragione all’ottimismo di Mauro, specie dopo la rivelazione fatta dallo stesso Scalfari, nel salotto televisivo di Lilli Gruber, delle scuse chiestegli precipitosamente a casa dall’editore e amico Carlo De Benedetti per avere scelto e generosamente contrattualizzato Mario Calabresi senza prima consultare lui, temendo evidentemente di incontrare qualche resistenza o complicazione. Un timore non irragionevole, d’altronde, conoscendo le trasparenti simpatie del nuovo direttore per Matteo Renzi, sospettato invece da Scalfari di voler comandare troppo da solo, senza i necessari bilanciamenti istituzionali che condizionano altri capi di governo costretti dalle mode o dalle circostanze politiche, interne e internazionali, a comandare da soli, o quasi, anche loro.
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Il timore di De Benedetti e/o di qualche suo consigliere di trovare intralci consultando Scalfari prima della nomina del nuovo direttore nasceva probabilmente anche dall’imbarazzo in cui si sarebbe potuto trovare il fondatore del giornale nei riguardi di un direttore che ha alle spalle una drammatica storia familiare, alla quale lo stesso Scalfari si trovò a dare un contributo tanto involontario o casuale, per carità, quanto penoso.
E’ la storia da noi più volte ricordata su Formiche.net, ma generalmente rimossa dai giornaloni per un malinteso senso di garbo e opportunità, o opportunismo, di quella lettera-manifesto all’Espresso sottoscritta da Scalfari nel 1971, in compagnia di più di 700 intellettuali, che segnò il rilancio di una campagna mediatica e politica contro l’allora commissario di polizia Luigi Calabresi sulle responsabilità che egli avrebbe avuto, e nascosto con l’aiuto dei magistrati, nella morte di Giuseppe Pinelli. Che era l’anarchico fermato nel dicembre del 1969 per la strage nella sede milanese della Banca Nazionale dell’Agricoltura, in Piazza Fontana, e schiantatosi nel cortile della Questura cadendo dalla finestra dove Calabresi era entrato e uscito più volte per partecipare agli interrogatori.
A quel manifesto seguì disgraziatamente in meno di un anno l’assassinio del commissario, sotto casa, ad opera di militanti di Lotta Continua convinti di avere vendicato la morte di Pinelli, e mandati – secondo una sentenza definitiva di condanna – dal loro leader Adriano Sofri. Della cui lunga collaborazione con Repubblica lo stesso Sofri ha annunciato la fine, non credo causalmente, all’annuncio della nomina di Mario Calabresi a direttore. Se poi è stata davvero una casualità, legata solo al rapporto dichiaratamente personale del rapporto con il direttore uscente, destinato perciò a chiudersi naturalmente con lui, bisogna ammettere che le casualità sono a questo punto un po’ troppe, e troppo diaboliche.
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Reclamate e ottenute le scuse dell’editore, lasciatosi da lui convincere a desistere dal proposito di non scrivere più per il giornale, persuaso infine dal nuovo direttore in persona, con tanto di visita riparatrice, non solo a continuare a scrivere, ma a farlo sempre di domenica, anche allo scopo dichiarato di ispirarlo con le sue osservazioni per tutta la settimana successiva, tutto lasciava ragionevolmente prevedere che il fondatore si fosse convinto a dare il benvenuto a Calabresi a tutti gli effetti, presentandolo ai lettori come un continuatore dei “valori” e della storia del suo giornale. Valori non a caso richiamati da Scalfari già nel titolo dell’omelia laica, come per avvertire che la materia del giorno era proprio la vicenda interna della Repubblica di carta.
Invece il fondatore ha rifatto sì la storia del suo giornale, dall’esordio affannoso del 1976 allo sfondamento nelle edicole in coincidenza con l’escalation del terrorismo e l’assassinio di Aldo Moro, di cui si consolò in qualche modo sorpassando in diffusione il Corriere della Sera, ma ha concluso inneggiando a Papa Francesco, “il più rivoluzionario di tutti i suoi predecessori”.
E’ alla “voce” del Papa argentino, altro che all’arrivo di un nuovo direttore, che Scalfari ha voluto riconoscere il merito di “esprimere i nostri valori e di condividerli tutti. E in particolare quelli sulla fraternità, sull’uguaglianza, sulla giustizia, sull’innovazione”.
Per fortuna il sorpasso di Repubblica sull’Osservatore Romano è già avvenuto. Ed è abbastanza consolidato per non lasciar temere all’editore la necessità di sostituire Calabresi col Papa, senza aspettare i 20 anni che sono finora durati i direttori di Repubblica. Francamente troppi, anche anagraficamente, per attendere Bergoglio, e De Benedetti.