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Che cosa (non) ci ha insegnato Charlie Hebdo

Di Giulio Meotti

Pubblichiamo uno estratto del libro “Hanno ucciso Charlie Hebdo. Il terrorismo e la resa dell’Occidente: la libertà di espressione è finita” di Giulio Meotti edito da Lindau

Quando, a sei mesi dall’uccisione di Carlo Casalegno, fu scoperto a Torino un covo delle Brigate Rosse, vi si rinvennero, accuratamente ritagliati, decine di suoi articoli. Per questo, solo per questo, il giornalista della Stampa era stato assassinato, con la viltà̀ di tanti altri agguati, sempre diretti a colpire i migliori, intellettuali e studiosi come Marco Biagi. In vita, a Casalegno avevano dato del “conservatore”, del “reazionario”, del “codino”. La raccolta degli articoli di Casalegno nel covo delle BR è stata giustamente definita l’”anatomia di un assassinio”.

Quarant’anni dopo, il 7 gennaio 2015, un commando di terroristi islamici fa irruzione nella redazione del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi, città-paradigma dei valori occidentali, massacrando otto fra vignettisti e giornalisti. Noi italiani avremmo dovuto ricordarci di Casalegno e degli altri feriti e uccisi da un simile odio fondamentalista, questi giannizzeri perduti, in lotta contro l’estremismo medievaleggiante, che scivolavano leggeri tra i tentativi di linciaggio. Avremmo dovuto ricordarcelo, in Italia, perché́ quando uscirono I versi satanici di Salman Rushdie fu una casa editrice italiana, la Mondadori, dopo una importante discussione interna all’azienda, a pubblicare per prima la traduzione in Europa, mentre tante altre case editrici capitolarono di fronte alla paura e all’intimidazione. Avremmo dovuto ricordarcelo, sempre noi italiani, perché́ un traduttore italiano, Ettore Capriolo, fu accoltellato da un sicario iraniano soltanto perché́ aveva osato tradurre quel romanzo.

La grande manifestazione “Je suis Charlie” di Parigi, l’11 gennaio, che seguì la strage e gli omicidi in un supermercato ebraico è stata una dimostrazione edificante di solidarietà̀ umana e sociale che ci ha impressionato tutti. Tuttavia, ha anche dato un’impressione molto fuorviante. Come se da una parte ci fosse il mondo libero unito nel sostegno a Charlie Hebdo e alla libertà di espressione; e dall’altra una manciata di estremisti che si oppone alla libertà e a “tutto ciò̀ che ci è caro”. L’opinione pubblica occidentale in realtà̀ era molto meno solidale.

Nel corso delle ore e dei giorni successivi all’attacco c’è stato un gran parlare – soprattutto da parte dei guerrieri anonimi di Twitter – sulla necessità di esprimere “solidarietà̀” a Charlie Hebdo. Molti altri hanno detto quanto fosse importante far sì che “i terroristi e i fondamentalisti non vincano”. Ma i terroristi e i fondamentalisti stanno vincendo perché́, anche prima della strage, Charlie Hebdo era già̀ da solo. Sulla scia dell’affaire delle vignette danesi nel 2006, non c’era grande giornale o rivista in Europa disposti a pubblicare vignette con il fondatore dell’islam. Naturalmente hanno dichiarato di non averle pubblicate per non offendere, o perché́ hanno pensato che le del tutto innocue raffigurazioni di Maometto fossero volontariamente “provocatorie”. E, naturalmente, Jyllands-Posten è un foglio conservatore, un quotidiano “di destra”.

Ma c’era soltanto un modo per dimostrare solidarietà̀ a Charlie: se l’indomani, o un giorno di quella fatale settimana, tutti i giornali e le riviste in Europa, la BBC e Channel 4, i siti e gli altri organi d’informazione più̀ importanti, avessero pubblicato simultaneamente una serie di vignette di Charlie Hebdo con Maometto. Questo, come vedremo, non è successo. Anzi, i media si sono persino rifiutati di pubblicare la copertina del “numero dei sopravvissuti” di Charlie Hebdo.

Ben presto è emerso che la minaccia alla libertà non è venuta soltanto da pochi barbari alle porte. La libertà di parola deve affrontare i nemici più̀ potenti all’interno della citta della supposta della civiltà̀ stessa. Questo consenso includeva alcuni compagni di letto insoliti, come Papa Francesco e il Partito comunista cinese. Subito dopo aver condannato gli omicidi, il Papa è sembrato quasi suggerire che questi vignettisti “provocatori” avessero aspirato alla morte in redazione. La statale Xinhua News Agency, voce ufficiale del regime cinese, un paio di giorni prima del Papa aveva affermato che “ci dovrebbero essere dei limiti alla libertà di stampa”.

I giornalisti di Charlie Hebdo erano stati infatti abbandonati a una minaccia crescente, progressiva, prevedibile, che il coraggio da solo non era sufficiente ad abbattere. Gran parte del giornalismo “non è Charlie”. Anche dopo che Charlie Hebdo è stato incendiato nel 2011, ha continuato a fare della satira sul mondo islamico. Una grande dimostrazione di onestà e coraggio. Ma la Cnn, l’Associated Press e le grandi organizzazioni dei media, si erano già̀ tutte ritirate nel loro angolino sicuro davanti alla minaccia della violenza totalitaria.

Per dirla con Aleksandr Solženicyn, “eravamo già̀ rassegnati a non dire e a non ascoltare più̀ la verità̀”. Questa infatti non è soltanto la storia di una guerra, ma anche di una resa, di una abiura. Ha ragione lo scrittore britannico mussulmano Kenan Malik in From fatwa to Jihad, quando afferma che il liberalismo occidentale ha sacrificato la libertà di parola nella sua risposta al caso Rushdie.

Quando abbiamo deciso che non valeva più̀ la pena battersi per la libertà di parola e quindi per difendere la superiorità̀ della nostra cultura sul fanatismo? Quando abbiamo stabilito che la DDR, il metodo delle BR e le prigioni del “socialismo reale” erano migliori dell’Europa occidentale che accoglieva e pubblicava i dissidenti sovietici?

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