Gli Stati Uniti non possono risolvere le crisi mediorientali, e soprattutto, non possono di certo farlo in modo unilaterale. Se si volesse trovare un punto di incontro pratico tra il presidente americano Barack Obama e il direttore della National Intelligence James Clapper, si dovrebbe cercare su questo piano.
UNA VITA NELL’INTELLIGENCE
Settantacinque anni, 53 dei quali passati nell’intelligence, Clapper presiede la United States Intelligence Community, ossia il raggruppamento dove le sedici agenzie indipendenti americane dovrebbero trovare punti di contatto e condivisione congiunta; il condizionale è d’obbligo, l’indipendenza è forte, ognuno ha propri ruoli, direttori, interessi, che dimostrano come l’integrazione tra agenzie non sia un problema solo europeo. Proprio nella collaborazione è concentrato il ruolo e lo sforzo di Clapper, ma non solo internamente: a metà aprile c’è stato un incontro importante, per questo poco pubblicizzato, in Germania (luogo la base aerea americano di Ramstein in Renania-Palatinato), al quale insieme al direttore americano hanno partecipato parigrado europei.
MUOVERSI INSIEME CONTRO LA MINACCIA IS
Lo Stato islamico in Siria, Iraq, Libia, Nigeria, Sinai, le dinamiche del jihadismo globale (Washington continua a non sottovalutare il ruolo di al Qaeda), sono gli argomenti caldi del momento, preoccupazioni da condividere con gli alleati; gli stessi che in un’ormai antologica intervista di qualche mese all’Atlantic Obama definì “free-riders”, scrocconi, adesso devono far qualcosa in più, perché, per esempio, soltanto giovedì una sospetta cellula radicale islamica è stata smantellata a Bari, in Italia, e uno psicopatico drogato affascinato dal jihad ha ucciso un uomo a coltellate a Monaco di Baviera.
REALISMO: NON RIPRENDEREMO MOSUL A BREVE, CI VORRANNO DECENNI
David Ignatius, firma del Washington Post, ha intervistato Clapper lunedì e ha sottolineato come l’approccio del direttore sulla guerra al Califfato sia molto misurato, lui che fu uno dei primi nel settembre del 2014 ad ammettere che gli Stati Uniti avevano sottovalutato la minaccia (erano i tempi dei giocatori con la maglia dei Lakers che non diventano Kobe Bryant, immagine retorica usata col New Yorker da Obama per sminuire gli uomini di Abu Bakr al Baghdadi). Se Washington non è Baghdad che ogni due giorni annuncia campagne di conquista, leader uccisi, territori sottratti allo Stato islamico: Clapper dice che le operazioni stanno “degradando” l’Isis, dati alla mano, ma ammette che sarà difficile per la Coalizione riuscire a riprendere le loro roccaforti (Raqqa in Siria e Mosul in Iraq) entro fine anno, la guerra durerà “decenni”. “Hanno perso un sacco di territorio” dice al WaPo, “stiamo uccidendo molti dei loro combattenti. Noi vorremmo riprendere Mosul, ma ci vorrà molto tempo e [la situazione] è molto caotica. Non credo che succederà in questa amministrazione”. Qui c’è una nota politica, perché era stata la stessa Casa Bianca ad annunciare più o meno apertamente che l’obiettivo per il 2016 era riprendere i due capisaldi statuali al Califfo, ma il realismo del direttore sembra essere più vicino alla situazione sul campo.
NON BASTA SCONFIGGERE IL CALIFFO
“Gli Stati Uniti non possono risolvere il problema”, ammette Clapper mentre spiega che ci sono fondamentali questioni sociali in quei territori che rendono il tutto molto più complesso dello sconfiggere semplicemente lo Stato islamico. E infatti, i baghdadisti nascono da questo, da un’economia debole, un sistema politico corrotto, giovani delusi e non governati, repressioni settarie, che hanno trovato risposta in predicazioni radicali.
DON’T DO STUPID SHIT
Proprio nella famosa intervista all’Atlantic, Obama affermò che gli Stati Uniti non hanno più bisogno del Medio Oriente come prima, e che se avessero continuato a cercare di risolvere gli irrisolvibili problemi regionali, avrebbero danneggiato i propri interessi altrove. Clapper condivide la linea con Ignatius, anche se spiega che l’America deve comunque mantenere una qualche leadership, perché “le cose accadono quando questa è assente”. Siamo certamente lontani dall’insolazionismo nazionalistico del front runner repubblicano Donald Trump, ma è comunque una presa di coscienza importante che segna l’epoca del “don’t do stupid shit“, non far cavolate, mantra con cui Obama ha affrontato le questioni mediorientali durante il suo mandato. La vicenda siriana, per esempio, con il coinvolgimento tenuto al minimo, presenti ma senza rischi. Risultati all’ultima tregua negoziata ad Aleppo: la Russia parla per Damasco, per il regime e per i suoi alleati, amicizie non integerrime, anzi, ma in nome di chi si muove Washington se l’indirizzo intellettuale con cui cura i rapporti con i suoi partner è quello di evitare un coinvolgimento profondo e parte già con la coscienza che la sua capacità di risolvere le crisi è venuta meno? Oppure è tutto solo spin politico, una sorta di minaccia per cercare di smuovere le azioni di tutti quegli alleati che finora hanno sfruttato le politiche assertive americane ed invitarli ad essere maggiormente collaborativi? D’altronde, è per costruire un sistema di collaborazione che il ruolo di Clapper è stato creato.