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Per Trump i dazi contro la Cina possono innescare un effetto boomerang sulle mid-term

Nato golfo muro

North Dakota, Montana, Indiana, Missouri e Florida sono considerati dagli esperti americani gli Stati che risentiranno di più dell’innalzamento delle tariffe commerciali contro la Cina che il presidente Donald Trump vuole come misura dura per riequilibrare l’import/export con Pechino e per sanzionare le pratiche scorrette che i cinesi usano sul mercato.

Che le nuove tariffe sarebbero state un’arma a doppio taglio era prevedibile: non solo il rischio di punire certi settori si sarebbe portato dietro il contraccolpo interno, ma c’e stata la reazione di Pechino, che ha usato in rappresaglia misure simmetriche con Washington che, per esempio, sono andate a colpire il sistema dell’esportazione dei semi di soglia americani (prodotto di cui la Cina è il principale importatore al mondo, e gli americani sono i principali produttori ed esportatori con un mercato cresciuto del 16 per cento nell’ultimo anno).

Missouri, Indiana, North Dakota (ma discorsi analoghi potremmo farli per il mais, il cotone, o la carne di maiale, in altri stati con sensibilità simili) sono tre grossi produttori dove i senatori democratici sono in caccia di un seggio da vincere alle elezioni di mid term, e potranno usare i rischi che lo scontro commerciale di Trump può portarsi dietro danneggiando le economie statali durante le loro battaglie al Congresso e nei rally elettorali. Il North Dakota ha una produzione importante di semi di soia che dipende per due terzi dal mercato cinese, e ha una senatrice democratica, Heidi Heitkamp, che deve difendere il suo seggio dall’assalto repubblicano — ma ora la dem potrebbe avere una carta in più: se gli acquirenti cinesi dovessero trovare le nuove tariffazioni troppo pesanti potrebbero scegliere altri mercati e dunque Trump avrebbe causato un boomerang sul mercato di uno Stato che alle presidenziali ha vinto con oltre il 60 per cento).

È una questione delicata, perché con un presidente che sta lavorando su una linea dove i repubblicani continuano a sentirsi non troppo a proprio agio, l’armistizio partecipativo firmato dal partito è strettamente finalizzato alle elezioni di mid-term. A novembre Trump dovrà consentire ai repubblicani di mantenere il controllo di tutte e due le camere, altrimenti c’è da scommetterci che si aprirà una dura stagione di confronto interno tra i conservatori, con lotte che arriveranno in Congresso e peseranno sulla già non spedita azione di governo dell’amministrazione.

Ci sono diversi Stati chiave — legati al mondo agricolo — che potrebbero essere colpiti dalla contromossa tariffaria cinese, già vinti da Trump nelle presidenziali del 2016, ma rappresentati anche da congressisti democratici. La corsa per il Senato (dove la maggioranza balle sulle singole unità) sarà molto interessante pure in Minnesota e Nebrska, dove la decisione di Pechino di aumentare del 25 per cento le tariffe anche sulle importazioni di mais (annunciata a inizio aprile per non chinarsi davanti alla scelta fatta da Trump a fine marzo; ormai il ritmo di questi scontro viaggia in escalation a frequenze settimanali) ha colpito uno dei settori economici interni più importanti.

Il punto è: se le aziende dovessero trovarsi in difficoltà, gettandone il peso sui lavoratori, quanto Trump e i repubblicani saranno bravi a smarcarsi dalle responsabilità di quel che sta succedendo? Quanto riusciranno a far percepire le logiche rappresaglie commerciali cinesi come un attacco di un nemico esterno? O quanto queste saranno viste come un passo consequenziale a una politica troppo aggressiva e avventata del presidente?

Sta tutto lì: se la macchina comunicativa retorica e propagandistica funzionerà come con le presidenziali o meno.

Per i Rep è una fase critica: i rappresentanti delle società di categoria in diversi Stati hanno lanciato l’allarme, e il partito sta studiando la strategia per capire se smarcarsi dalla traiettoria del presidente e porsi su una linea di supporto alle attività locali.

Per ricostruire questi movimenti bastano un paio di immagini. Quando pochi giorni fa Trump ha fatto sapere di pensare a un altro giro di tariffe da alzare contro la Cina, il senatore repubblicano Ben Sasse ha commentato dicendo che il presidente o bluffa o è un “folle”; Sasse è uno dei due rappresentati del Nebraska, esportatore di mais in Cina. Kevin Cramer, il senatore che correrà contro Heitkamp, appena le nuove tariffe americane sono uscite sui media ha twittato che sarebbe il caso di “usare un approccio più moderato” perché agire “d’impulso” rischia di creare “un’agitazione non necessaria” — il senatore aveva fatto uscire un tweet molto meno polite, in cui dichiarava la sua “opposizione alle tariffe che potrebbero danneggiare il mercato agricolo del North Dakota” (la riformulazione del commento in modo più educato è il frutto plastico di quell’armistizio scricchiolante ma ancora in piedi tra partito e Casa Bianca.

Il capo consigliere economico della presidenza, due giorni fa, ha cercato di edulcorare la situazione. Larry Kudlow ha infatti detto alla Nbc che le tariffe volute da Trump potrebbero essere “una tattica di negoziazione”. Il presidente “vuole risolvere questo problema (con la Cina, ndr) con il minimo dolore. Ecco il punto chiave, entrambe le parti beneficiano di soluzioni positive che abbassano le barriere e aprono i mercati”, ha spiegato Kudlow.

 


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