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Enzo Tortora e quel maledetto venerdì 17. La riflessione di Stanislao Chimenti

Venerdì 17 giugno 1983 a Enzo Tortora veniva notificato un ordine di cattura emesso dalla Procura di Napoli per traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Dopo 7 mesi di carcere e una condanna in primo grado a 10 anni, il 15 settembre 1986 venne assolto dalla Corte d’Appello di Napoli. Un caso che ancora lì a turbare le coscienze e a mostrare cosa possa accadere a chiunque quando il sistema della responsabilità civile non funziona

Nella giornata del 17 giugno 2024 viene scoperta a Roma una targa dedicata a Enzo Tortora a 41 anni dal suo ingiusto arresto. La sua incredibile vicenda non smette di turbare le coscienze. Ingiustamente accusato, arrestato, condannato in primo grado, dovrà attendere molti anni per vedere riconosciuta la propria completa innocenza e le clamorose calunnie rivolte ai suoi danni. Divenuto nelle more parlamentare europeo, rinuncerà ai privilegi e alle immunità per tornare agli arresti e condurre una battaglia politica di civiltà giudiziaria a vantaggio di tutti i cittadini. Morirà poco dopo per i grandi dolori e lo sforzo immane.

Nessun risarcimento gli verrà corrisposto per le clamorose ingiustizie subite, i legali che promossero le azioni risarcitorie verranno addirittura indagati per asserita calunnia. I suoi persecutori, invece, verranno promossi. Dovrebbe forse evitarsi il varare riforme sulla base dell’impatto emotivo connesso ai fatti di cronaca. E, tuttavia, non si può non osservare come l’unica rilevante riforma di sistema concernente l’ordinamento giudiziario dai tempi dell’entrata in vigore della Costituzione, risalga al 1988 e sia stata varata proprio sull’onda di sdegno che aveva percorso il Paese all’epoca del caso Tortora.

Quella riforma però si dimostrò molto presto largamente insufficiente e sostanzialmente irrispettosa della volontà popolare. L’avvio della stagione di Tangentopoli finì per paralizzare ogni ulteriore e pur necessario e urgente impulso riformistico, non verificandosi più in alcun modo le condizioni strettamente politiche che potessero consentire di almeno avviare un percorso di riforma. Il dibattito non ha mai però cessato di infiammare la politica italiana.

Proprio la vicenda di Mani Pulite ha evidenziato un grave malfunzionamento e talune distorsioni del sistema rappresentati dal rapporto tra pubblico ministero e giudice delle indagini preliminari o, meglio, più in generale, tra magistratura requirente e magistratura giudicante. Difatti, come noto, entrambe le figure appartengono al medesimo ordinamento, quello giudiziario. In tal modo, si è posto da più parti in dubbio che la magistratura giudicante possa esercitare la funzione in termini di effettiva terzietà e imparzialità proprio perché esiste il rischio concreto che il giudice finisca per avvantaggiare il pubblico ministero il quale, come detto, appartiene al medesimo ordine.

Questo fenomeno, poi, si acuisce nella misura in cui esiste attualmente una perfetta permeabilità fra i due percorsi, di modo che il singolo magistrato può esercitare le funzioni requirenti per essere poi trasferito a quelle giudicanti e viceversa, minando così ulteriormente il principio di terzietà e imparzialità. La “separazione delle carriere” è dunque divenuto il cuore di una riforma che, in questi giorni, venuti a maturazione i tempi, è oggetto del Ddl costituzionale di recente approvazione.

Ed è certamente complesso svolgere considerazioni, sia pure “a prima lettura”, su di un testo che sarà oggetto quanto mento di successive modificazioni.
In estrema sintesi, il ddl si propone di modificare la Costituzione in parte qua, prevedendo espressamente la bipartizione tra magistratura requirente e magistratura giudicante. Tale dicotomia, dunque, sembra confermare l’appartenenza al medesimo ordine giudiziario (la “magistratura”) di entrambe le figure; tuttavia, si tracciano le direttive di una divaricazione fra le carriere che culminano nella creazione di un Consiglio Superiore della Magistratura ad hoc per la magistratura requirente, con compiti analoghi a quelli del Csm “ordinario”, ma appunto dedicati.

Viene poi introdotta la figura di nuovo conio della Alta Corte disciplinare la quale “è composta da quindici giudici, tre dei quali nominati dal Presidente della Repubblica tra professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati con almeno venti anni di esercizio e tre estratti a sorte da un elenco di soggetti in possesso dei medesimi requisiti che il Parlamento in seduta comune, entro sei mesi dall’insediamento, compila mediante elezione nonché da sei magistrati giudicanti e tre requirenti estratti a sorte tra gli appartenenti alle rispettive categorie, con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie e che svolgano o abbiano svolto funzioni di legittimità”

L’Alta Corte disciplinare giudica appunto in tema di illeciti disciplinari; la riforma sottrae così tale potestà al Csm tradizionale per attribuirla ancora una volta a un organismo ad hoc, la cui composizione dovrebbe, nelle intenzioni del legislatore, garantire il massimo di imparzialità, pur nel rispetto dei principi di indipendenza della magistratura. L’Alta Corte disciplinare giudica sia in prima, sia in seconda istanza; in quest’ultimo caso, peraltro, non possono farne parte i membri che componevano l’Alta Corte di prima istanza.

Appena pubblicato, il ddl ha avviato un acceso dibattito e l’Anm ha mosso critiche molto serrate prospettando anche l’eventualità di uno sciopero dei magistrati. È certamente molto complesso coniugare le esigenze di indipendenza della magistratura con quelle di “costruzione” di un giudice davvero terzo e imparziale. Il vero è che la riforma – come del resto sovente accade per ogni riforma – rischia di essere eversiva per taluni e addirittura modesta per altri.
In realtà, il testo non affronta in alcun modo quello che sembra essere, a ben vedere, il vero cuore della questione: il problema della responsabilità civile del magistrato e sul quale un costruttivo dibattito langue.

Scorrendo i repertori di giurisprudenza, è agevole constatare come i casi di conclamata responsabilità civile dei magistrati siano praticamente inesistenti, i risarcimenti liquidati irrisori, le conseguenze personali per i magistrati responsabili di fatto trascurabili. Ciò perché la legge prevede un regime speciale di estremo favore che limita la responsabilità civile ai casi di dolo o colpa grave e contiene anche il quantum debeatur a carico del responsabile, addossandolo in ultima istanza all’intera collettività. In tal modo, l’unica tutela del cittadino risiede nei mezzi di impugnazione. Ciò perché, a decidere della responsabilità dei magistrati, sono pur sempre altri magistrati.

Così facendo, tuttavia, si dissolve il sistema della responsabilità civile all’interno del sistema dei mezzi di impugnazione, confondendo gravemente istituti sostanziali e processuali che non debbono reciprocamente escludersi ma semmai cumularsi, a tutela del cittadino. La separazione delle carriere fra magistratura requirente e magistratura giudicante è dunque una riforma bensì necessaria ma, da questo punto di vista, probabilmente non sufficiente, anche perché essa evidentemente incide in maniera quasi irrilevante sulle questioni civilistiche, ove l’intervento e la presenza del Pm sono minoritarie.
La stessa Alta Corte disciplinare, come detto, conosce appunto unicamente di questioni disciplinari, di tipo meramente deontologico, ma non valuta i diversi profili dell’illecito aquiliano. A ben vedere è questa la vera sfida di civiltà giuridica che il Paese è chiamato a raccogliere. Il caso Tortora è ancora lì a turbare le coscienze e a mostrare cosa possa accadere a chiunque quando il sistema della responsabilità civile non funziona.

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