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Kenya in bilico. Perché i manifestanti chiedono le dimissioni di Ruto

Ruto “must go!”, dicono i giovani manifestanti che protestano in Kenya da tre settimane. La stabilità in bilico, le autorità forzano la repressione, i rischi di penetrazione di attori esterni concreti: tutto in un Paese centrale per le strategie africane di Usa e Italia

I giovani attivisti del Kenya dicono che non saranno dissuasi dalla “brutalità” della polizia e chiedono l’estromissione di politici e funzionari corrotti: sono tre settimane che procedono le proteste contro il governo, e ormai le richieste di dimissioni del presidente William Ruto sono diventate esplicite. Le principali città del Paese si preparano per nuove ondate di manifestazioni (previste oggi, in serata, e nei prossimi giorni), alle quali le autorità potrebbero rispondere con la forza — è stato schierato l’esercito, sono stati usati proiettili veri, ci sono stati 39 morti e 361 feriti accertati, arresti e pestaggi.

Il vicepresidente, Rigathi Gachagua, ha incolpato il National Intelligence Service per i rapimenti che hanno “traumatizzato” il Kenya, e ha lanciato un appello chiedendo di evitare ulteriori manifestazioni. Ruto ha difeso la sua gestione delle proteste. “Non ho sangue sulle mani”, ha detto in una tavola rotonda televisiva con i media kenioti, domenica sera. Il presidente ha aggiunto che ci sarebbe stata un’indagine sulla condotta degli ufficiali, ma lo scatto di Gachagua verso i manifestanti può essere letto anche come una (auto)offerta/candidatura per il passaggio di potere — visto momento e istanze delle masse.

La riforma fiscale, usata dal presidente Ruto per fare cassa davanti a una serie di promesse elettorali che non sembra attualmente in grado di mantenere (e davanti alle richieste di austerity di IMF e World Bank), è stata la miccia di innesco delle proteste. L’insoddisfazione covava da tempo, sia per quelle promesse disattese sia per la consapevolezza che le classi più giovani non hanno un futuro nel Paese. In Kenya, circa l’80% della popolazione ha meno di 35 anni, e la maggior parte di coloro che hanno votato per Ruto lo hanno fatto a causa del suo impegno elettorale popolare (e populista) di essere un “hustler-in-chief”, che avrebbe prodotto posti di lavoro e abbassato il costo della vita per la gente comune.

La rabbia tra i giovani kenioti è diretta anche al Fondo monetario internazionale e alla Banca mondiale, che sostengono stiano prendendo decisioni violando la sovranità kenyota, è accusato di peggiorare le difficoltà e creare una crescita più lenta della media — critiche e narrazioni già sentite altrove. Quei giovani, istruiti e informati, percepiscono la presunta corruzione e la spesa dispendiosa nel governo come una priorità maggiore nell’affrontare il debito del paese. D’altronde, i deputati kenioti sono i secondi più pagati al mondo rispetto al Pil, spiega Nanjala Nyabola, esperta di politica kenyota, sul Guardian: “Il disegno di legge finanziaria è stato descritto come austerità, ma questa non è austerità: questa è una presa di denaro dai poveri per sostenere gli stili di vita dei ricchi”.

Per Ruto non è così: la riforma fiscale è la mossa necessaria per garantire maggiori fondi pubblici, anche grazie all’assistenza delle istituzioni internazionali. “Siamo in una posizione finanziaria molto difficile. Questo è qualcosa che il popolo del Kenya deve capire”, ha detto il presidente. Nosmot Gbadamosi, sul suo “Africa Brief”, ricorda che ad aprile, la U.S. Trade Representative, Katherine Tai, aveva avvertito che la situazione economica e politica di Ruto stava ostacolando gli sforzi per attirare più investimenti statunitensi. “Il Kenya non ha attuato efficacemente le sue leggi anticorruzione. Le aziende statunitensi segnalano regolarmente richieste dirette di tangenti da tutti i livelli del governo keniota”, segnala un recente rapporto statunitense sulle barriere al commercio estero.

Da mesi, c’è una crescente divisione nelle opinioni internazionali e nazionali su Ruto, con una chiara discrepanza tra l’abbraccio al presidente da parte del governo degli Stati Uniti o l’idea italiana di inserire il Kenya tra i “Paesi pilota” del Piano Mattei, e i tassi di approvazione dell’azione presidenziale — estremamente bassi. La carriera politica di Ruto è iniziata in modo oscuro: la Corte penale internazionale una volta lo ha accusato di crimini contro l’umanità, per incitamento alla violenza etnica dopo le elezioni del 2007, ma ha abbandonato il caso.

Da allora Ruto si è reinventato come alleato chiave degli Stati Uniti, cogliendo l’opportunità: il Paese ha una posizione strategica e tecnicamente capacità/possibilità di crescita (i giovani kenyoti sono tra i più istruiti in Africa), un ruolo regionale e internazionale acquisito (leggasi impegno per Haiti). Gli Usa vi hanno spostato assetti militari come ripiegamento dopo le espulsioni dal Sahel — dove in diversi Paesi giunte militari golpiste anti-occidentali hanno preso il potere spinte anche dalla disinformazione prodotta dai rivali di Usa e Ue. In Kenya la situazione è diversa, ma non sorprenderebbe se attività di infowar venissero a galla — studiate per alimentare il caos (le narrazioni contro l’IMF e la Banca mondiale sono i primi indizi?).

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