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Petrolio, cosa succederà alla produzione britannica dopo la Brexit

Ferve l’attività sulle numerose piattaforme petrolifere del Mare del Nord, ma non per l’estrazione di idrocarburi. La produzione è stata interrotta e sono iniziati giganteschi lavori di smantellamento di buona parte dell’industria petrolifera inglese, quella che negli ultimi 50 anni era considerata una delle più redditizie attività del Paese.

Entro il 2050 dovranno essere “decommissionate” – bonificate, recuperate, trasportate sulla terraferma e fatte a pezzi – un numero enorme di infrastrutture: 470 piattaforme, 5.000 pozzi, 10.000 km di oleodotti e 40.000 blocchi di calcestruzzo dovranno abbandonare il Mare del Nord.

L’anno prossimo il Pioneering Spirit – un enorme catamarano ampio come cinque Boeing 747 – raggiungerà la piattaforma Brent Delta Oil della Royal Dutch Shell a nordest delle Isole Shetland e con 16 gigantesche chele tenterà in un colpo solo di sollevare e asportare la parte superiore della piattaforma: 24.000 tonnellate fra centrale di controllo, aree di servizio, alloggi, impianti estrattivi ed eliporto annesso.

Queste attività sono abbastanza frequenti in tutto il mondo, ma in nessun altro posto raggiungeranno volumi così elevati in un tempo così breve come nel Mare del Nord.

Per la prima volta nella storia dell’industria petrolifera inglese si stanno smantellando più impianti offshore di quelli che stanno costruendo. La produzione, che aveva raggiunto 4,5 milioni di barili al giorno sedici anni fa, ora è crollata a 1,5 e continua a scendere. Contemporaneamente, il numero di pozzi abbandonati, che per anni si era mantenuto entro il numero fisiologico di 5-10 pozzi all’anno, è balzato a 49 nei primi cinque mesi di quest’anno.

I costi di decommissionamento sono sempre stati inclusi nei contratti e quindi previsti nei piani di sfruttamento, ma nessuno aveva immaginato che i nodi sarebbero venuti al pettine tutti insieme.

Il motivo risiede nel crollo verticale del prezzo del petrolio nell’estate del 2014, ma anche nella ragionevole certezza che non risalirà significativamente sopra i 50$ al barile perché l’Opec non ha alcuna intenzione di fare rientrare in gioco il petrolio di scisto americano e, appunto, l’olio del Mare del Nord.

Dopo l’olio di scisto (shale oil) di cui sono ricchi gli Stati Uniti e la cui estrazione richiede costose tecniche di idrofratturazione idraulica (fracking), il posto più caro del Pianeta per l’estrazione di idrocarburi è proprio il Mare del Nord. Le compagnie inglesi hanno resistito quasi due anni producendo olio e gas sottocosto sperando in un rimbalzo, ma ora hanno dovuto guardare in faccia la realtà e gettare la spugna. E questa è una scelta definitiva perché i costi di riavvio di un pozzo già abbandonato sono proibitivi.

Ora per loro comincia il lavoro duro: prima di tutto si tratta di mettere in sicurezza il giacimento non ancora esaurito rimuovendo tonnellate di tubi d’acciaio dal pozzo, di sigillarlo, di smontare l’intera piattaforma – su un mare gelido con ondate che possono raggiungere i 40 m – cominciando dalle strutture aeree per poi passare a quelle subacquee, infine di rimuovere la rete di oleodotti e gasdotti che le collega ai terminali. Si parla di spendere 17 miliardi di sterline nei prossimi 10 anni, ma la cifra finale è ora stimabile in 60 miliardi di £. Il governo britannico ha destinato 250 milioni di sterline per l’ampliamento del porto di Aberdeen e di altri sulla costa orientale per accogliere le piattaforme recuperate.

Mentre la redditività di queste operazioni è nulla, rimane elevata l’occupazione, perché gli operai dei pozzi sono ora impiegati ne loro smantellamento. Si prevede anche un significativo balzo in avanti tecnologico, perché decommissionare le piattaforme con la stessa tecnica con cui sono state realizzate è troppo costoso. Ad esempio, si stanno sviluppando tecniche per sciogliere l’acciaio del tubo di estrazione direttamente nel pozzo in modo da utilizzarlo per sigillare il giacimento tramite laser di potenza controllati in remoto. Telecamere robotizzate si caleranno nei pozzi o lungo gli oleodotti per verificarne la tenuta stagna.

Questa esperienza, potrebbe offrire anche un margine competitivo alle aziende britanniche costrette da contratto a decommissionare, perché potrebbero esportare in tutto il mondo le competenze acquisite.

Intanto, il Mediterraneo non finisce di sorprendere. Dopo Zohr – il giacimento supergigante scoperto al largo dell’Egitto – Eni continua ad annunciare nuove scoperte nel Mediterraneo. Il mare di casa nostra e l’intero continente africano stanno diventando sempre più importanti per l’equilibrio energetico mondiale e anche per il nostro Paese: attualmente Eni sta lavorando in Egitto, Algeria, Libia, Tunisia, Congo, Mozambico, Nigeria, Angola, Ghana, Gabon, Costa d’Avorio, Kenia, Liberia e Sud Africa.

Ma al nord, mentre le compagnie britanniche chiudono, la multinazionale battente bandiera italiana ha avviato la produzione di Goliat: un giacimento a olio proprio nel Mare di Barents al largo della Norvegia, la più grande e sofisticata unità galleggiante di produzione e stoccaggio (Fpso) cilindrica al mondo. La produzione sarà di 100.000 barili al giorno, attraverso un sistema di 22 pozzi realizzati con soluzioni tecnologiche tali da minimizzare l’impatto ambientale.



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