È passata un po’ sotto traccia – davanti a questioni certamente più rilevanti – la scelta di Donald Trump sul prossimo ambasciatore americano alla Nato. Sarà Kay Bailey Hutchison, ex senatrice repubblicana dal Texas, nominata una settimana fa.
Hutchinson, che ha 73 anni, è una scelta di testa e meno di pancia per Trump: è stata in Senato per venti anni, poi nel 2012 ha scelto di non candidarsi più (favorendo l’effetto catapulta di Ted Cruz, che ha portato il Tea Party sulla scena nazionale), ma è rimasta una delle voci autorevoli del Gop moderato. I repubblicani americani hanno tendenzialmente un approccio conservazionista nei confronti dell’Alleanza Atlantica, e la scelta dello Studio Ovale non poteva seguire le linee rivoluzionare tenute durante la campagna elettorale – quando Trump parlava della Nato come “obsoleta” – anche per mantenere in piedi l’armistizio temporale col partito. “Ho per lei un profondo rispetto […] sto incoraggiando la sua nomina” aveva detto a maggio Ben Cardin, il leader della minoranza dem alla Commissione Esteri del Senato. Hutchinson è considerata vicina al segretario di Stato Rex Tillerson: lo ha aiutato interrogandolo durante finte udienze costruite per preparare l’ex Ceo di Exxon prima di passare sotto l’analisi della Commissione a gennaio, ha raccontato una fonte presente al Texas Tribune.
Hutchinson si trova intorno un terreno delicato. È vero che il presidente ha cambiato posizione: ha palesemente detto che “la Nato non è più obsoleta”, e ha, seppure lentamente, sposato (come è ovvio che sia stando al trattato dell’alleanza) l’articolo 5, quello che riguarda la difesa collettiva in caso che un Paese membro venga attaccato. Resta, ma si tratta di una linea pre-trumpiana, il richiamo agli impegni sintetizzato nel rispetto dell’accordo sul 2 per cento del Pil da investire in spesa militare, che la stragrande maggioranza degli alleati non rispetta. L’ambasciatrice dovrà muoversi su questa linea: le certezze della presenza americano non dovranno più significare disimpegno per gli altri.
Mercoledì Trump è partito per il suo secondo viaggio internazionale, con direzione il G20 di Amburgo. Ma prima del vertice con gli altri leader mondiali (in programma per venerdì) la tappa fissata è Varsavia. Il presidente americano in Polonia trova terreno fertile per il suo conservatorismo nazionalista nel partito di governo di Jarosław Kaczyński, sovranista, anti immigrati e avverso al multilateralismo, nel caso incarnato dall’UE – i populisti del Pis hanno pagato i pullman per spostare gente e creare la claque adatta che assisterà al discorso che Trump terrà giovedì 6 luglio in piazza Krasinski (il monumento al moto antinazista del 1944).
Ma al di là di questo feeling naturale, la sosta ha il senso di marcare la vicinanza americana agli alleati Nato che rispettano il patto del 2 per cento. Circa 900 militari americani si trovano sul suolo polacco in questo momento, e sono parte dello sforzo di deterrenza che l’Alleanza ha alzato verso la Russia. Inizialmente a Varsavia si temeva che Trump fosse protagonista di un Grand bargain con Mosca – i timori sono legati alla costanza con cui Mosca allunga in Polonia, come nei paesi baltici e in generale su tutte la fascia orientale dell’Europa, il suo soft, e hard, power per destabilizzare l’equilibrio interno.
C’erano tempi in cui per affermare l’America First e il contro-obamismo la Nato diveva passare per obsoleta in quanto pensava al contenimento russo: la visione è cambiata, e per il secondo tour internazionale Trumo sceglie di flirtare con l’atlantismo della Polonia, un paese che sostiene fortemente la linea “anti-russa” dell’alleanza, e per la prossima ambasciatrice americana all’Alleanza sceglie una donna dalle visioni classiche sul tema.
(Foto: JBSA News, la senatrice Hutchinson in visita alla Joint Base San Antonio nel 2012)