Oggi il premier italiano Matteo Renzi ha incontrato il presidente francese François Hollande. Al centro dei colloqui l’impegno di Roma nella coalizione anti Isis e la possibilità che i due Paesi collaborino in modo più stretto nella guerra al terrore.
Perché Palazzo Chigi, finora, ha scelto di non bombardare lo Stato Islamico in Siria e Iraq come Parigi? E quali sono gli effetti geopolitici di questa decisione?
Sono alcuni dei temi analizzati in una conversazione di Formiche.net con Carlo Pelanda (nella foto) coordinatore del dottorato di ricerca in geopolitica e geopolitica economica dell’Università Guglielmo Marconi di Roma ed editorialista di Italia Oggi e Mf/Milano Finanza. Da novembre è nelle librerie un suo nuovo lavoro: Nova Pax (Franco Angeli editore).
“Italia e Francia sono unite contro il terrore”, ha detto Matteo Renzi, ma poi l’Italia non porterà truppe sul terreno, come vorrebbe François Hollande. Che cosa significa?
Roma e Parigi si sono intese. L’Italia sosterrà la Francia nell’ambito della coalizione – già lo fa pur senza bombardare – e probabilmente aumenterà il proprio impegno in Africa, dove i transalpini sono molto impegnati, in Mali e non solo. Anche questo è utile. Ma non può esporsi troppo nel contrasto all’Isis, almeno per ora.
Perché questa scelta da parte dell’Italia?
Il nostro Paese ha bisogno di una Libia pacificata. Un obiettivo impensabile senza il contributo dell’Egitto, che però, a sua volta, è legato all’Arabia Saudita. Il Cairo è abbastanza autonomo, ma non guasta ricordare che l’ascesa del generale Abdel Fattah al-Sisi è stata finanziata con ingenti risorse di Riad.
Questo cosa c’entra con la Libia?
I sauditi non vogliono che Bashar al-Assad, alleato dell’Iran, resti al potere. Questo conflitto nasce per favorire la nascita di due Stati, con l’attuale Califfato che verrà trasformato in uno Stato sunnita. Una sorta di cuscinetto sotto influenza saudita e americana, che impedirebbe al regime degli Ayatollah di avere una continuità territoriale nell’ambito della cosiddetta “mezzaluna sciita” che va da Teheran, passa per l’Iraq attraversa la Siria e arriva nel Sud del Libano. Una guerra combattuta finora attraverso “proxy” e finanziamenti anche a gruppi estremisti che sono ancora in piedi perché funzionali a questo progetto. Uno di questi è lo Stato Islamico. Combattendolo l’Italia indispettirebbe Riad, che poi farebbe pressione sull’Egitto per rendere ancora più caotico lo scenario libico. Roma cerca di evitarlo.
L’Italia non colpisce i jihadisti con le bombe anche per evitare attacchi sul suolo nazionale?
Non credo. Era una strategia che funzionava negli anni 80, oggi non più. Credo piuttosto che il nostro governo, al pari di quello tedesco che ha deciso di sostenere la Francia in Mali, sia molto più preoccupato degli effetti economici che questa destabilizzazione dell’intero quadrante sta avendo. Bisogna augurarsi che non ce ne siano di peggiori.
Quali potrebbero essere?
Se la Russia decidesse di farla pagare davvero alla Turchia per l’abbattimento da parte di Ankara di un velivolo di Mosca, anche il regno di Erdogan inizierebbe a vacillare. Dopo la Libia, l’Italia perderebbe uno dei suoi mercati migliori, nella regione.
Alcuni analisti, come l’editorialista Stefano Cingolani, credono che queste divisioni, compreso lo scontro aperto tra Russia e Turchia “mostra chiaramente che la cosiddetta coalizione internazionale contro il Califfato è fasulla”. Che ne pensa?
Ritengo sbagliato dire che è fasulla. L’errore è pensare che, in questa guerra, il nemico sia lo Stato Islamico. In quel caso sarebbe lecito dire: come mai tanti Paesi non riescono a far fuori una forza barbara ma in fondo modesta? Ankara, al pari di Riad, non vuole un Iran forte e per questo ha spesso chiuso un occhio sui traffici dei drappi neri. Poi, dopo la visita di Vladimir Putin a Teheran, ha pensato di lanciare un segnale in modo del tutto irrazionale. Semmai questo episodio dimostra che Erdogan è inaffidabile e che Roma fa bene a tenere ottimi rapporti coi curdi – ostili alla Turchia – per avere un’arma in più nel negoziare con Ankara. La verità è che l’Isis è uno strumento in una guerra tra Iran ed Arabia Saudita per ciò che riguarda la supremazia nell’Islam e, su un piano inferiore, tra Iran e Turchia per la leadership regionale. Finora il gruppo di Abu Bakr al Baghdadi è stato funzionale a una destabilizzazione della regione. Quando non lo sarà più ci vorrà relativamente poco ad annientarlo.
Come spiegare allora gli attacchi al cuore dell’Europa, come quelli a Parigi e le minacce a Roma e Vaticano?
Come spesso accade, questo strumento è in parte sfuggito dalle mani di chi lo ha finanziato e ne ha agevolato la formazione. Ma la sua utilità strategica per alcuni attori del conflitto resta tutta.
Chi combatte seriamente l’Isis allora? Francia e Russia?
Nemmeno. La Russia ha interesse a preservare i suoi interessi regionali, che passano anche per Assad. La Francia, invece, nonostante voglia dare l’idea di un’azione muscolare, cerca di proteggere la propria influenza su quelli che considera due suoi “protettorati”, Siria e Libano. Ma lo Stato Islamico non viene attaccato anche perché, finché c’è non ci sono soluzioni sul futuro della regione, è meglio lasciare la situazione congelata. Si tratta di un processo lungo. Senza contare che un’immediata implosione dell’Isis potrebbe riportare in Europa circa 10mila foreign fighter addestrati che ora combattono lì, con tutti i rischi che ne conseguono.